Pensierini della buonanotte – 216

“Nella falsa società il riso ha colpito la felicità come una lebbra e la trascina con sé nella sua totalità insignificante. Ridere di qualcosa è sempre deridere, e la vita che, secondo la tesi di Bergson, spezzerebbe nel riso la sua crosta irrigidita, è – in realtà – l’irruzione della barbarie, l’affermazione di sé, che, nell’occasione sociale che le si offre, prende il coraggio a due mani e celebra la sua liberazione da ogni scrupolo. Il collettivo di quelli che ridono è la parodia della vera umanità. Sono monadi chiuse in se stesse, ciascuna delle quali si abbandona alla voluttà di essere pronta e decisa a tutto, a spese di tutte le altre e con la maggioranza dietro di sé.” (Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, traduzione Renato Solmi)

Perché tra tutti i pronomi personali “noi” è il più pericoloso? Ho così tanta nostalgia del “noi” della giovinezza e di quello dell’appartenenza politica che l’aver capito (lo dico con la dovuta cautela, ma temo di non sbagliarmi) che è il veicolo di ogni etica totalitaria, palese o dissimulata o del tutto occulta che sia, mi provoca una sensazione di disgusto per la ragione umana. Non sarebbe meglio lasciarsi andare all’entusiasmo rassicurante di un “noi” possibilmente maggioritario (ma anche corposamente minoritario andrebbe bene)? È una tentazione fortissima, ma quanto è pericolosa?

Certo, di “noi” nelle società liberali ce ne sono tanti (e non dirò mai che non sia una fortuna). Ma ognuno sembra chiudersi sempre più nel bozzolo di un gruppo uniforme dove tutti pensano allo stesso modo e sono pronti ad espellere (accompagnandolo con pesanti offese) l’estraneo casualmente capitato tra di loro. Capita nei gruppi dei social network, ma non solo. Pare sia una progressiva tendenza ad evitare il fastidioso confronto tra idee diverse. Si adottano le idee del gruppo di persone che si frequenta, credendo che corrispondano esattamente alle proprie (senza rendersi conto di adeguare in realtà le proprie idee a quelle del gruppo) e si cessa la noiosa revisione delle proprie convinzioni (una tempo si chiamava “autocritica”, ma ora credo non abbia più nome). Quanto a chi “non la pensa come noi”, la presa in giro e la derisione sono il trattamento d’elezione in ogni gruppo. È pur sempre meglio della gogna e di un gulag, ma il passaggio da “una risata vi seppellirà” a “una risata mi impedirà di parlare con voi” è la fine di ogni possibilità di confronto dialettico.

I luoghi del ritorno – 19

Murri 125

Dietro le finestre risate lontane e clacson
nell’ombra avevo la mente perplessa
per una vita da rifare come si doveva.

Il tempo pareva fermo e invece passava
tra gli annunci dei bus e i pipistrelli d’agosto
a volte un’amica gridava verso sera.

Avevo strappato metri e metri di stoffa
per costruire un rifugio dove meditare
ma inquieto uscivo per cercare l’erborista.

Ho rivisto la panettiera nel suo grembiule rosa
il volto triste per i troppi sogni
poco prima che perdesse il calore del suo pane.

Non c’è più niente di un mondo che era niente
i negozi hanno sostituito i negozi
la gente ha preso il posto dei morti.

È rimasto solo un numero
centoventicinque è solo un ottavo di mille
avrei potuto capirlo già allora.

Fuori le carte

Ero a passare il ponte
su un fiume che poteva essere il Magra
dove vado d’estate o anche il Tresa,
quello delle mie parti tra Germignaga e Luino.
Me lo impediva uno senza volto, una figura plumbea.
«Le carte» ingiunse. «Quali carte» risposi.
«Fuori le carte» ribadì lui ferreo
vedendomi interdetto. Feci per rabbonirlo:
«Ho speranze, un paese che mi aspetta,
certi ricordi, amici ancora vivi,
qualche morto sepolto con onore».
«Sono favole – disse – non si passa
senza un programma.» E soppesò ghignando
i pochi fogli che erano i miei beni.
Volli tentare ancora. «Pagherò
al mio ritorno se mi lasci
passare, se mi lasci lavorare.» Non ci fu
modo d’intendersi: «Hai tu fatto –
ringhiava – la tua scelta ideologica?».
Avvinghiati lottammo alla spalletta del ponte
in piena solitudine. La rissa
dura ancora, a mio disdoro.
Non lo so
chi finirà nel fiume.
(Vittorio Sereni, Un sogno, da “Gli strumenti umani”)

Tutto ciò che dico o scrivo può modificare le idee di altre persone. Lo facciamo tutti, non è necessario scrivere libri o articoli su riviste, basta una frase buttata lì o una riflessione appena accennata perché qualcuno possa trovare ciò che gli mancava per cambiare opinione. Siamo interdipendenti, non pensiamo mai da soli. Leggere, però, aumenta la possibilità di mutare, o precisare meglio, le proprie idee.

Di libri che secondo me affermano sciocchezze ce ne sono, è inevitabile ed è una fortuna. Se leggessi solo ciò con cui sono già d’accordo mi dovrei preoccupare seriamente. E sarebbe ancora peggio se non esistessero libri che affermano cose che reputo sciocchezze. Mi troverei all’interno di una società totalitaria di cui condividerei, consapevolmente o meno, la propaganda. Invece posso partecipare a un dibattito infinito che riguarda tutto e su cui l’unica cosa certa è che non ci sono certezze.
È una debolezza della nostra cultura? Sembra che qualcuno stia iniziando a pensarlo. Confrontandosi con altre società dal pensiero uniforme (ma lo sono veramente o nel silenzio della propria mente ognuno cova il proprio dissenso?) abbiamo l’impressione di essere più deboli. I templari della propaganda (ce ne sono ovunque) stanno già lavorando da tempo. Nella nostra società liberale sarà sempre possibile dire il contrario di qualcosa, ma il rischio è di venire setacciati, censurati da funzionari a volte più solerti di quanto sia loro richiesto. Si potrà sempre criticare il pensiero dominante, ma il rischio è che lo si debba fare con la voce flebile di un poeta, mentre tutti gli altri, approvati da qualche redazione, urlano. Non è ancora così, non del tutto almeno, ma il clima di guerra favorisce la prevalenza di un unico pensiero.

Dobbiamo nondimeno continuare a pensare e a parlare. Se uno scrittore avesse anche un solo lettore, questo potrebbe essere sufficiente a modificare il destino di un gruppo molto più grande di persone. Non possiamo saperlo, ma il cambiamento di idee in una singola persona potrebbe essere il granello di sabbia o la goccia d’acqua che mancava.

Pensierini della buonanotte – 215

Durante mucho tiempo
he esperado con la impaciencia
con que miran hacia la izquierda
los pasajeros
en la parada del autobús.
(Angeles Mora, El porvenir tarda demasiado)

Per molto tempo
ho aspettato con l’impazienza
con cui guardano verso sinistra
i passeggeri
alla fermata dell’autobus.
(Angeles Mora, Il futuro tarda troppo, traduzione Valentina Colonna)

Salendo lungo un sentiero alpino ho sempre provato l’ansia dell’attesa per ciò che avrei visto: la vista che si allarga improvvisamente su una valle, il crinale di un monte oltre il quale altri monti che prima non vedevi si mostrano, un fiume di cui ignoravi l’esistenza, un ghiacciaio che ti abbaglia improvvisamente. Una metafora fin troppo ovvia che si ripete a ogni passeggiata e ti fa credere di potere vivere per sempre.
Finita la salita non c’è più nulla da aspettarsi, hai già visto tutto e puoi solo scendere. Per noi che siamo nati con la tara originaria di chi è proiettato nel futuro conta relativamente se sei immerso nella bellezza, ci stiamo annoiando e abbiamo bisogno di pensare al percorso che faremo domani.

Uscendo dalla metafora che è la nostra stessa vita, però, si scopre che il domani, tutti i domani, erano già compresi nel viaggio. Capire che non c’è più molto da aspettarsi costringe a voltarsi all’indietro. Quando è stato che ho raggiunto la cima? Dev’essere successo quel giorno in cui mi sono detto che non valeva più la pena di dannarsi per un miraggio. O forse quello in cui ho pensato che se anche fossi morto un secondo dopo non mi sarei perso nulla (prima, invece, credevo che avrei dovuto rinunciare a un’altra vita, come una larva che doveva tramutarsi in farfalla). Quante volte mi sono perso nelle mie fantasticherie? Ora non sono scomparse, ma superata la cima hanno cambiato direzione: non sogno più ciò che potrò fare in futuro, ma quello che avrei potuto fare nel tempo che ho già vissuto. Non sono rimpianti (ho abbastanza senno per sapere di non avere perso così grandi occasioni) ma bivi di sentieri non percorsi che suscitano ancora la mia curiosità. Cosa sarebbe accaduto se…? La tara non è scomparsa, non sono guarito.

Pensierini della buonanotte – 214

“… lo ringraziavo per avermi fatto entrare nel laboratorio; mi dichiaravo pronto a perdonare i nemici, e magari anche ad amarli, ma solo quando mostrino segni certi di pentimento, e cioè quando cessino di essere nemici. Nel caso contrario, del nemico che resta tale, che persevera nella sua volontà di creare sofferenza, è certo che non lo si deve perdonare: si può cercare di recuperarlo, si può (si deve!) discutere con lui, ma è nostro dovere giudicarlo, non perdonarlo. Quanto al giudizio specifico sul suo comportamento, che Müller implicitamente domandava, citavo discretamente due casi a me noti di suoi colleghi tedeschi che nei nostri confronti avevano fatto qualcosa di ben più coraggioso di quanto lui rivendicava. Ammettevo che non tutti nascono eroi, e che un mondo in cui tutti fossero come lui, cioè onesti ed inermi, sarebbe tollerabile, ma questo è un mondo irreale. Nel mondo reale gli armati esistono, costruiscono Auschwitz, e gli onesti ed inermi spianano loro la strada; perciò di Auschwitz deve rispondere ogni tedesco, anzi, ogni uomo, e dopo Auschwitz non è più lecito essere inermi.” (Primo Levi, Il sistema periodico)

Non esiste un peccato originario, ma colpe che giorno dopo giorno si accumulano e di cui dovremmo chiedere scusa. Di molte non abbiamo che ben poca responsabilità, condividendole solo perché siamo parte di una nazione, di un mondo o di una classe sociale. Sono colpe collettive che precedono la nostra stessa nascita e aggiungiamo ad esse il nostro piccolo obolo di indifferenza o di dolente apatia. Per altre che accadono e si compiono mentre siamo adulti e ancora ben vivi non possiamo trovare giustificazione che non sia quella del “succede, ma io non sono d’accordo”. Scusa che diventa rivoltante quando viene addotta a posteriori (i tanti italiani che dopo la caduta del fascismo dissero di non essere mai stati veramente fascisti, di essere sempre stati contrari all’invasione di altre nazioni, di non avere condiviso le leggi razziali…).

Se ci si lascia prendere dal senso di colpa non si riesce più a vivere, ben lo sappiamo. Così la responsabilità per una guerra, per dei morti in mare, per scelte politiche che comportano sempre conseguenze e quindi colpe, viene nascosta e costantemente dimenticata. Ciò che può fare una singola persona è sempre pochissimo, ma se non lo fa può ancora ritenersi innocente? Nessuno lo è. Viviamo immersi in un universo politico nel pieno senso della parola, perché delle decisioni che qualcuno prende siamo vittime e insieme autori (in una società democratica sicuramente è così, ma lo è anche in società che democratiche non sono). Manifestare il proprio dissenso è importante, ma la piazza non è sufficiente (ed è meno decisiva di quanto non fosse un tempo). Meglio essere coerenti con il proprio senso etico, in ogni circostanza, senza preoccuparsi di correre dei rischi (accade negli stati totalitari ma a volte anche in quelli democratici), perché il rischio più grande è quello di lasciare che siano altri a decidere per te, rendendoti complice.

Magia – 10

Intorno, gli oggetti cesseranno di essere oggetti di desiderio per te – diverranno oggetti di azione. Roteando intorno a cose che non esistono più, gli impulsi di una vita irrazionale alla fine si estingueranno: e cadrà anche il senso dello sforzo, la mania del correre, del fare, dell’arrivare nell’azione, la serietà dolorosa ed il bisogno, il sentimento tragico e il vincolo titanico; cadrà insomma la grande malattia – il senso umano della vita.” (Ea, Sulla visione magica della vita, in “Introduzione alla magia” del gruppo di Ur)

Avevo venticinque anni e mi ero perduto. Non vedevo prospettive che fossero diverse da una vita che non volevo. La paura di morire senza avere combinato nulla che corrispondesse alle mie sciocche speranze mi impediva di vivere. Fu allora che tra varie strade trovai forse non la migliore, ma la più immediatamente praticabile: cercare il mio talismano per mettermelo al collo attribuendo ad esso tutta l’energia di cui mi sentivo privo. Lo avevo letto in un libro di ruvida carta delle edizioni Mediterranee e avevo pensato che forse era più efficace delle sedute di psicoterapia fatte da qualcuno che mirava solo ai miei pochi soldi.

Da un punto di vista scientifico (i miei primi studi hanno riguardato la fisica) era una completa assurdità. Ma Antonin Artaud poco prima di essere internato in manicomio non aveva scritto un libro sui tarocchi? Ed io non avevo fatto una tesi su di lui, innamorandomi perdutamente della sua follia?
Magia e follia erano i due vertici della possibile soluzione e la magia mi pareva meno pericolosa.
La magia usa gli oggetti e la loro aura. Cosa sia l’aura di un oggetto e se in generale esista un’aura degli oggetti è questione su cui si potrebbe discutere per secoli senza arrivare ad alcun risultato. Tra magia e ragione non esistono relazioni facili. Lo stesso Walter Benjamin, però, parlando di aura di un oggetto artistico indicava una possibile soluzione: l’aura è qualcosa che noi attribuiamo a uno specifico oggetto e che ne determina la sua unicità. Il mio talismano (in realtà un amuleto) era un sole in similoro che alludeva a misticismi orientali. Indossandolo mi sentivo più forte ed ero pronto a fare qualsiasi cosa. E in effetti per circa due anni riuscii a trasformarmi in ciò che volevo essere ma non ero mai stato. Era come abitare un’altra persona.

Tra le cose da considerare nella magia dei talismani c’è la loro consunzione. Simili a pile l’energia che hanno ricevuto per attribuzione svanisce nel tempo. Poi non sono più utilizzabili e andrebbero anzi, dicono i testi esoterici, seppelliti in luoghi deserti in modo che nessuno possa più ritrovarli. Non so che fine fece il mio sole, forse si sciolse insieme ai miei desideri. L’ho poi cercato ma non sono più riuscito a ritrovarlo. Ne ho indossati altri, privi della stessa efficacia. Il genio della lampada di Aladino soddisfa solo tre desideri.

Quel che non avvenne

Ancora ricordo quel che non avvenne
tra noi, le strade che percorreremo
nel futuro anteriore del sogno:
ci sarà una sera fresca d’autunno
i lampi dei tuoi occhi di rugiada
persi nel buio. Tu che attendi la mia mano
– è la gaia disfatta della ragione –
per celebrare il rito di una notte.
E i sensi di colpa per gli altri assenti
saranno il ponte crollato col reale
– la vera assente è un’altra vita.

Racconto di mezzanotte – 116

Il fallimento

Non c’erano più luci che si potessero accendere la notte per leggere. Persino le candele erano finite. E poi la luce di una candela non sarebbe stata sufficiente, ci vedeva poco ormai. Meglio aspettare in ogni caso quella del giorno, quando non pioveva e nel cielo c’era un po’ di sole che riusciva a penetrare dalle grate. I suoi libri erano tutti ammucchiati per terra, nel poco spazio che gli era rimasto. Molti erano ammuffiti per via dell’umidità, ma ancora si riusciva a leggerne la maggior parte. Quando li guardava sentiva il cuore rallentare e calmarsi e il ricordo di anni lontani lo faceva sospirare per una felicità perduta. Leggeva sul dorso il nome degli autori: Pasolini, Fenoglio, Proust, Faulkner, Celine, Hemingway e tanti altri. Ogni volta gli bastava leggere un titolo per ricordare una storia. Leggeva “Mentre morivo” di Faulkner e senza aprirlo si ricordava del lungo viaggio sul carro con il cadavere. Oppure “Una questione privata” di Fenoglio e riviveva la storia di una delusione d’amore nel mezzo della lotta partigiana. Poi li apriva e rileggeva ciò che aveva già letto tante volte e ogni volta era come tornare in un parco meraviglioso che si conosce a memoria ma che proprio per questo è più caro.

Fuori le bombe cadevano ancora. Si sapeva che la guerra sarebbe finita presto. Così dicevano in molti, intanto erano obbligati a restare chiusi nelle cantine e a sperare di non rimanere seppelliti dalle macerie dei palazzi. Ogni giorno gli portavano un po’ d’acqua e qualche biscotto. Era difficile per i giovani vivere così, ma a lui non importava. Quel poco gli era più che sufficiente. Aveva abbastanza ricordi per potere continuare a vivere sottoterra. Temeva solo che i suoi libri si rovinassero definitivamente. Non era tanto per lui, in fondo avrebbe ancora potuto continuare a usare la memoria, finché avesse retto. Era per suo nipote, che giocava lì vicino con sua figlia e suo genero e a cui avrebbe voluto lasciarli in eredità. Se fosse successo sarebbero finiti con ogni probabilità in qualche altra cantina di un ancora lontano tempo di pace. La pace! Aveva pensato per tanti anni che fosse eterna.

Ogni volta che pensava alla pace gli tornava in mente Yves Bonnefoy. Bonnefoy aveva passato molti anni della sua vita tentando di restaurare una grande casa per poi capire che era una follia, ma gli aveva comunque riempito la vita. Nella pace, pensava, non c’è bisogno di essere eroi. Basta una casa, un’idea, un compito impossibile da realizzare dietro cui perdere tutto il proprio tempo. La cosa più bella della vita, si disse, è fallire. Lui aveva passato tutta la sua vita a scuola e ora c’era la guerra. Il suo fallimento era scritto nei libri che ormai nessun altro leggeva.

Canzoni – 28

Mille modi di dirsi addio

Addio dissi tra le foglie dorate di un autunno tardivo
Arrivederci amore mentii in un’alba senza luce
Ti scriverò promisi tra lacrime d’inchiostro
La salutai ubriaco alla stazione mentre piangeva
Alla prossima caro amico, e poi mi venne a noia
La vita ribaltava ogni speranza e poi vedremo
se vi sarà modo di parlarci con un buon bicchiere
Addio a te che non ci sei e continui a parlarmi
con quel tono deciso che mi feriva sempre
Addio ai morti e a chi forse vive ancora
in un luogo lontano e che mi crede morto
Addio a te che mi hai vinto al gioco
e abiti nella terra dei rimorsi
Addio

Di un luglio infinito

Dal balcone c’era una vista sepolcrale
lì in fondo alla strada una siepe malmessa
piante che potevano sembrare tropicali
nel calore di un feroce pomeriggio.
Il sole brillava irridendo le cicale
i poeti silenziosi si chiedevano che fosse
guardando la strada.
Avevo ritagliato delle strisce di carta
le facevo volteggiare nell’aria
privandomi della terza dimensione.
Poi c’era il libro scritto da un amico
– alla tua età andavo già a lavorare –
ci sarebbe stato un altro mondo
passeggiando alle Tuileries
da disertore