Magia – 10

Intorno, gli oggetti cesseranno di essere oggetti di desiderio per te – diverranno oggetti di azione. Roteando intorno a cose che non esistono più, gli impulsi di una vita irrazionale alla fine si estingueranno: e cadrà anche il senso dello sforzo, la mania del correre, del fare, dell’arrivare nell’azione, la serietà dolorosa ed il bisogno, il sentimento tragico e il vincolo titanico; cadrà insomma la grande malattia – il senso umano della vita.” (Ea, Sulla visione magica della vita, in “Introduzione alla magia” del gruppo di Ur)

Avevo venticinque anni e mi ero perduto. Non vedevo prospettive che fossero diverse da una vita che non volevo. La paura di morire senza avere combinato nulla che corrispondesse alle mie sciocche speranze mi impediva di vivere. Fu allora che tra varie strade trovai forse non la migliore, ma la più immediatamente praticabile: cercare il mio talismano per mettermelo al collo attribuendo ad esso tutta l’energia di cui mi sentivo privo. Lo avevo letto in un libro di ruvida carta delle edizioni Mediterranee e avevo pensato che forse era più efficace delle sedute di psicoterapia fatte da qualcuno che mirava solo ai miei pochi soldi.

Da un punto di vista scientifico (i miei primi studi hanno riguardato la fisica) era una completa assurdità. Ma Antonin Artaud poco prima di essere internato in manicomio non aveva scritto un libro sui tarocchi? Ed io non avevo fatto una tesi su di lui, innamorandomi perdutamente della sua follia?
Magia e follia erano i due vertici della possibile soluzione e la magia mi pareva meno pericolosa.
La magia usa gli oggetti e la loro aura. Cosa sia l’aura di un oggetto e se in generale esista un’aura degli oggetti è questione su cui si potrebbe discutere per secoli senza arrivare ad alcun risultato. Tra magia e ragione non esistono relazioni facili. Lo stesso Walter Benjamin, però, parlando di aura di un oggetto artistico indicava una possibile soluzione: l’aura è qualcosa che noi attribuiamo a uno specifico oggetto e che ne determina la sua unicità. Il mio talismano (in realtà un amuleto) era un sole in similoro che alludeva a misticismi orientali. Indossandolo mi sentivo più forte ed ero pronto a fare qualsiasi cosa. E in effetti per circa due anni riuscii a trasformarmi in ciò che volevo essere ma non ero mai stato. Era come abitare un’altra persona.

Tra le cose da considerare nella magia dei talismani c’è la loro consunzione. Simili a pile l’energia che hanno ricevuto per attribuzione svanisce nel tempo. Poi non sono più utilizzabili e andrebbero anzi, dicono i testi esoterici, seppelliti in luoghi deserti in modo che nessuno possa più ritrovarli. Non so che fine fece il mio sole, forse si sciolse insieme ai miei desideri. L’ho poi cercato ma non sono più riuscito a ritrovarlo. Ne ho indossati altri, privi della stessa efficacia. Il genio della lampada di Aladino soddisfa solo tre desideri.

Pensierini della buonanotte – 206

I mondi volano. Gli anni volano. Il vuoto
universo si specchia nei nostri occhi bui.
E tu, anima stanca, anima sorda,
riparli sempre di felicità.
(Aleksandr Blok, Da “I mondi volano. Gli anni volano. Il vuoto”,
traduzione Angelo Maria Ripellino)

Ho partecipato alla vera e unica rivoluzione del nuovo millennio (ma in realtà è iniziata un po’ prima): quella informatica. Orientato quindi al futuro, come tutti i rivoluzionari per volontà o per destino, mi sembra di essere ora quell’ex militare di Napoleone, Monsieur Mabeuf, che nei Miserabili di Victor Hugo si rifugia nel proprio giardino e nei propri libri per sfuggire ai vincitori della restaurazione.

Il presente dei vecchi giovani è un futuro che ha mangiato un altro futuro. Liberando il pensiero dalle ideologie e dalla nostalgia, emerge la costatazione del cambiamento continuo. Non in meglio e nemmeno in peggio (o per meglio dire casualmente in meglio e in peggio a seconda dei punti di vista), ma alla fine puro e semplice cambiamento che con il passare degli anni non si riesce più a sopportare. Diventa difficile credere che si possa fare qualcosa per migliorare il mondo. È un’idea che diventa troppo dolorosa quando si comprende che il mondo cambia comunque e in modi non sempre prevedibili.

E dire che viviamo in media 80-90 anni, un niente di fronte alla storia dell’umanità. Che ci accadrebbe se vivessimo solo poco più, 300 o 400 anni? Nascere al tempo della tarda inquisizione e vivere tutte le rivoluzioni politiche, le guerre, le idee filosofiche, il progresso e le sue conseguenze positive e negative: chi riuscirebbe a passare attraverso tutto questo senza diventare un nichilista assoluto? Incapace di credere, l’errante eternauta si distaccherebbe sempre di più dall’insensato agitarsi degli appena nati, provando disgusto per ogni tipo di entusiasmo.

Lettera da un vecchio allievo

Caro professore,

mi scusi se le scrivo dopo così tanti anni. Ho pensato spesso a lei (sì, lo so, mi chiedeva sempre di darle del tu, ma non riuscivo a considerarmi alla sua altezza). Non so dove ora si trovi e nemmeno credo che vi sia per lei un qualsivoglia dove. Volevo solo dirle che dopo la sua morte, avvenuta tantissimi anni fa, mi sentii perduto. Lo ero già di mio e quel giorno scoprii che pure lei, come me, si era smarrito nella vita. Qualcuno poi mi disse che era depresso, ma io sapevo che questa non era una spiegazione, così come non spiegava nulla l’assurda vicenda giudiziaria che la coinvolgeva. Lei avrebbe potuto tranquillamente mettere in ridicolo i suoi accusatori, che tra l’altro l’accusavano solo di avere saputo e non avere denunciato. Erano poi, lei lo sa bene, tutte fandonie, ma forse allora anche lei ebbe il dubbio che ci fosse qualcosa di vero. Fatto sta che io e lei sappiamo il vero motivo per cui si è ucciso. Ce lo disse, a noi studenti del suo seminario, più volte ben prima di morire, parlandoci del suicidio di Majakovskij. Ci sono situazioni oggettive che rendono impossibile continuare a vivere, così più o meno lo spiegava (mi scusi per l’approssimazione). Majakovskij aveva creduto in una rivoluzione che non era riuscita a eliminare i difetti umani, che non aveva migliorato la vita e che non aveva nemmeno risolto i problemi dell’amore. La sua battaglia era perduta e lui aveva deciso di mettersi da parte. “La barca dell’amore si è spezzata contro il quotidiano.” Questa era la spiegazione.

Così forse è stato pure per lei, ma naturalmente evitiamo i pettegolezzi. Questi coinvolgerebbero un partito che non esiste più e che nell’occasione in molti suoi esponenti dimostrò di avere una mentalità piccolo borghese non meno di altri. Non è questo il punto. Quando si arriva in una situazione simile a quella che ha portato al suicidio Majakovskij bisogna decidere se andare avanti nonostante tutto o arrendersi. Lei ha deciso di arrendersi. Come scriveva Majakovskij “non è una soluzione (non la consiglio a nessuno)”. Resta il diritto di farlo, nonostante sia sconsigliabile. Allora gliene feci una colpa, perché aveva abbandonato me e tanti altri (io ero solo uno dei tanti e forse uno dei più deludenti allievi). Ora sospendo per sempre il giudizio. Quel che è avvenuto dopo ha confermato che nella sua scelta c’erano delle ragioni. Il mondo che c’è stato dopo la sua morte ci ha deluso. Vorrei però dirle che avremmo ancora avuto bisogno di lei. Nonostante tutto quello che è successo, o forse proprio per tutto quello che è successo dopo.

Petites Madeleines – 44

Avevo due vite

Avevo due vite. Una era pallida e angelica, facevo ciò che si doveva fare e gioivo quando mi dicevano che ero bravo e soprattutto buono. Un’altra era notturna ma non solo, cresceva negli angoli del tempo, magari in un’ora rubata del pomeriggio, tra desideri e complici.
Ci furono anni in cui avevamo in molti due vite, tanto che c’erano serate in compagnia che sembravano dedicate alle seconde vite. Incontrare qualche conoscente della prima vita durante quelle serate era molto imbarazzante, ma spesso l’imbarazzo era reciproco. Ci si nascondeva dietro un impercettibile cenno del capo e un mezzo sorriso che era come un invito a tacere. E ci si scambiava uno sguardo che poteva significare: “È così difficile la vita delle persone perbene.”
Erano anni in cui tutti erano diventati borghesi. Sembrava che quella fosse l’unica forma di vita umana possibile: una vita regolare munita di valvola di sfogo. Frequentavamo locali dove si beveva da calici scintillanti e letti con lenzuola azzurre lavate di fresco. Fumavamo da lunghe pipe di ceramica e toglievamo di nascosto le calze di seta alla nostra vicina di sedia quando ce lo chiedeva.
Ancora oggi credo che tutto ciò avesse senso, ma che non potesse durare.

Avevo molti amori, ma ognuno era limitato. Questo rendeva impossibile l’amore, ma era l’unico modo per mantenere l’equilibrio. Camminavamo in molti sul bordo delle nostre esistenze. Talvolta qualcuno scompariva in una seconda vita. Non riusciva a resistere all’attrazione dell’altrove e vi si perdeva, trasformandolo nella sua prima e unica vita. Se scopriva che era peggiore della vita precedente, e accadeva quasi sempre, cercava disperatamente una nuova seconda vita, ma l’equilibrio era difficile da ritrovare e spesso finiva per sbandare.

Credo che abbiamo fatto mercato delle nostre emozioni, ma che sia stato meglio questo di vivere una vita dove ci si sente perfettamente inseriti, ma estranei. Noi eravamo i Jekyll della nostra epoca e siamo stati anche gli Hyde. Senza avere mai commesso delitti, pagavamo il prezzo di sentirci in colpa ogni volta che tornavamo alla nostra prima vita. Tutto questo avveniva tra gli anni ottanta e novanta dello scorso secolo, cercando la felicità senza sapere che cosa fosse.

Petites Madeleines – 43

Può sembrare sorprendente e perfino incongruo considerare Berlusconi come colui che ha realizzato ciò che il Sessantotto ha sostenuto. Eppure per chi ha vissuto all’interno di quel movimento, non è difficile trovare in lui quella volontà di potenza, quel trionfalismo farneticante, quella estrema determinazione di destabilizzare tutta la società da cui il Sessantotto fu pervaso”. (Mario Perniola, Berlusconi o il ‘68 realizzato)

E allora abbandonammo i cinema d’essai e i cineforum per andare nei cinema a luci rosse, e questo dice tutto di ciò che accadde nel nostro paese a partire dalla metà degli anni ottanta. Il crollo del muro di Berlino non ha avuto altrettante conseguenze. La libertà sessuale che avevamo voluto si era trasformata in una languida autoipnosi da supermercato. E ridevamo, quanto ridevamo! Ci pareva di essere arrivati nel paese di Cuccagna. Solo alla sera, però, perché di giorno, invece, le cose non andavano come nei nostri desideri. Un po’ meglio, sì, grazie a un numero esagerato di assunzioni nelle grandi aziende statali, ma non tanto meglio di prima.
Quei cinema, per la maggior parte, erano stati prima dignitosi luoghi dove si proiettavano film del tutto normali. Perché fino a poco tempo prima la gente andava volentieri al cinema e aveva per i film un gusto che ora giudicheremmo quasi da cinefili, mentre allora era normale. Non c’erano solo i film di Fellini, Visconti, Rossellini, De Sica e Antonioni, ma anche quelli di Pasolini, Scola, Rosi, Maselli, Bertolucci, Loi, Monicelli, Leone e tanti altri. Tutti film che seguivano la particolare idea di cinema del regista e di cui la gente parlava. E poi c’erano i film stranieri. La gente faceva la fila per vedere l’ultima opera di Kubrick o di Bergman. C’erano anche film più brutti, certo, ma anche questi avevano quasi sempre una certa dignità artigianale. Tutti, insomma, andavano al cinema, e se chiedevi a qualsiasi persona qual’era l’ultimo film “bello” che aveva visto, potevi essere sicuro che ti avrebbe nominato il titolo di un film che se non era un capolavoro, poteva almeno essere considerato decente.

Poi, come detto, e non certo da un giorno all’altro, ma con un lento processo di slittamento, ci lasciammo attrarre da un baratro. Nelle sale dei cinema a luci rosse si sentivano respiri pesanti e risate non troppo soffocate, a seconda di come si viveva la nuova libertà. Perché c’era chi la praticava, non come nei film porno, ma in modi diversi che andavano dal più classico adulterio del giovedì sera, per chi cercava la trasgressione all’interno di una normalità borghese, all’accoppiamento seriale con persone diverse ogni volta che si usciva la sera.
Per molti però la libertà sessuale iniziava e finiva all’interno di una sala cinematografica che aveva perso l’antica e quasi sacrale aura culturale per acquisirne una sordida: la gente entrava senza guardarsi in faccia e usciva in fretta, svoltando al primo angolo di strada sperando di non essere riconosciuta. Il tempo delle videocassette non era ancora arrivato.

Ricordo di avere visto una signora ben vestita, sui cinquant’anni, svenuta davanti a un cinema del centro diventato a luci rosse. Appena uscita da una proiezione mattutina si era sentita male ed era circondata da molte persone che cercavano di aiutarla, in attesa dell’ambulanza. Fu quel giorno che compresi il baratro. E avrei potuto, in quel momento, prevedere il futuro, sulla base di semplici conseguenze logiche, ma un inguaribile ottimismo m’impediva di farlo.

Racconto di mezzanotte – 93

Purtroppo era analfabeta

Dietro le figure che balenavano sullo schermo, del maharaja, dei simpatici ingegneri tedeschi e della splendida europea, vidi a un tratto le interminabili file degli schiavi che costruivano quel dannatissimo, assurdo sepolcro. Passarono in secondo, perfino in terzo piano, ma tanto bastò a farmi fremere di furore, a far cadere ogni velo del film.
Meditavano già di spingersi fino all’India e ne filmavano i paesaggi autentici. Tutti loro – quei proprietari di schiavi, sfruttatori, uomini di governo – avevano una vita a parte, mentre là sullo sfondo, come fra parentesi, c’erano gli schiavi divisi in squadre.
Quel film fu la mia rovina. Prima cercavo solo di imparare a leggere fra le righe dei giornali, adesso scrutavo tutto, domandandomi che cosa si celava dietro l’apparenza. Soprattutto se mi imponevano di entusiasmarmi.” (Anatolij Kuznecov, Babij Jar, traduzione Emanuela Guercetti)

Non credeva nelle immagini grigie, in quei fantasmi a bassa luminosità che illuminavano di sera le case dove tutte le luci erano state spente per meglio vederli. Non ci credeva e non potevo convincerla in nessun modo. Le indicavo la figura del presentatore, capelli folti e fronte alta, occhiali che levava e metteva di continuo, che con voce sincopata raccontava la storia del concorrente. Secondo lei non esisteva nemmeno il concorrente, inutile provare a farle credere che ci fosse pure un presentatore. “Ci prendono in giro,” mi ripeteva sempre, “è tutta un’invenzione.” Che dalla scatola di legno con dentro quelle enormi valvole dalla luce azzurrina potesse uscire la vita non poteva crederlo. Se le dicevo che sì, non era la vita, ma la sua riproduzione visiva, sogghignava. “Ci stanno prendendo in giro,” ribadiva, “come quando scrivono sui giornali che stanno per andare sulla Luna.”

Le avevano diagnosticato una sindrome paranoide, declassando bonariamente la precedente diagnosi di schizofrenia paranoide. Erano gli anni dell’apertura dei manicomi e molti ne uscivano con il riconoscimento implicito di un’ingiustizia subita. Lei ne era il più classico degli esempi. Non ragionava diversamente da tante altre persone anziane che conoscevo, era solo più intransigente nelle sue convinzioni. Credeva che il mondo fosse governato da pochi e che alla maggioranza delle persone venisse raccontata una falsa verità. Altri abbozzavano solamente l’idea e poi, forse per paura, la smentivano ammettendo la propria ignoranza. Lei no. Lei credeva solamente a quel che vedeva, e quel che vedeva era proprio quello!
Era difficile dimostrarle il contrario. Ogni programma televisivo, ogni film, ogni libro, ogni articolo di giornale era un possibile veicolo di propaganda. Come si poteva negare questa evidenza? E se era così, come potevo provarle che invece la maggioranza dei programmi, dei film, dei libri e degli articoli erano frutto della genuina volontà degli autori di parlare della realtà così com’era, senza tentare di farla sembrare più bella, più giusta, più umana? Ne avrei avuti di autori da farle leggere, ma purtroppo era analfabeta.

Il fantasma della normalità

Approfittai di questo soggiorno per far provvista di pietre da succhiare. Erano ciottoli, ma io li chiamo pietre. Sì, quella volta ne feci una riserva notevole. Le distribuii equamente tra le mie quattro tasche e le succhiai a turno. Ciò poneva un problema che risolsi sulle prime come segue. Avevo supponiamo sedici pietre, quattro per ciascuna delle mie quattro tasche, che erano le due dei pantaloni e le due del cappotto. Quando prendevo una pietra dalla tasca destra del cappotto, e me la mettevo in bocca, la rimpiazzavo nella tasca destra del cappotto con una pietra della tasca destra dei pantaloni, che rimpiazzavo con una pietra della tasca sinistra dei pantaloni, che rimpiazzavo con una pietra della tasca sinistra del cappotto, che rimpiazzavo con la pietra che avevo in bocca, non appena finito di succhiarla. Così c’erano sempre quattro pietre in ciascuna delle mie quattro tasche, ma per niente le stesse.” (Samuel Beckett, Malloy, traduzione Aldo Tagliaferri)

Da bambino credevo che per gli adulti essere normali significasse vestire bene. Vedevo gli uomini con le stesse giacche e le stesse cravatte, le donne con gli stessi tailleur e le stesse scarpe con i tacchi, e mi dicevo che per diventare grande e sano di mente bisognava vestire così. Poi vedevo un mendicante o un ubriaco che mi confermavano ciò che avevo appena capito, perché vestivano di stracci o con gli abiti non stirati. Mia madre, per porre un fatale dubbio sulla normalità di una persona, diceva: “Com’è trasandato!”

Essere normali voleva dire pure sottoporsi a una sequenza prefissata di cerimonie religiose: Battesimo, Prima Comunione e Cresima, Matrimonio e infine Estrema Unzione. Sembravano le soste obbligate di una via sicura, lontana dalle tempeste. Pensavo che le vite normali dovessero essere tutte uguali, e a parte l’adeguarsi a un conformismo religioso prevedessero altri eventi inevitabili come studiare, trovare un lavoro stabile e fare figli (ma solo all’interno del matrimonio). Crescendo, però, iniziavo ad accorgermi di eccezioni che incrinavano le mie certezze e di desiderare, con una naturalità che faceva a pugni con quella normalità, cose ben diverse. A dodici anni decisi di non mettere più piede in chiesa. Di punto in bianco decisi di non essere normale. Nello stesso periodo buona parte dei ragazzi, soprattutto quelli più grandi di me, aveva preso la stessa decisione. Chi in modo più mediato, chi esagerando, volevano cambiare il mondo che pareva preparato per loro. E quel mondo è cambiato, ma ora, a tanti anni di distanza, nostalgie di normalità tornano ricorrenti, come possibili rimedi all’umanissima paura di vivere e morire. Ma la normalità è il fantasma di una farsa, fatto con un lenzuolo tirato da corde, sotto al quale non c’è nulla. Non salva da delitti e follie.

Petites Madeleines – 42

“La persona giovane, quando comincia a leggere seriamente, tende a vivere, con grande fervore, con un libro alla volta. Il mondo offerto dal libro è così grande da contenere tutti gli altri mondi, o così unico da far recedere ogni altro mondo. A volte il libro viene sostituito da un altro libro, e il vecchio mondo cede il passo al mondo nuovo; anche questa esperienza d’incantamento – o intrappolamento – può darsi sia di quelle che capitano una sola volta nella vita.” (Yiyun Li, Caro amico, traduzione Laura Noulian)

Un giorno, vivevo un periodo veramente cupo, un anziano signore in autobus si sedette accanto a me e vedendo che stavo leggendo un libro mi disse che lui aveva letto tanto nella sua vita, ma che poi, diventato vecchio e più saggio, aveva deciso di non leggere più, perché i libri riempiono la testa di illusioni e fanno dimenticare cos’è veramente la realtà. Ricordo che reagii in malo modo, tanto che lui si zittì e rimase seduto, immobile, accanto a me, senza osare quasi respirare. Forse qualcuno degli altri viaggiatori mi guardò male, ma ero troppo arrabbiato per scusarmi. Non avevo altro, in quel periodo, che il piacere di leggere, e non tolleravo che qualcuno me lo guastasse.

La mia reazione eccessiva aveva radici antiche. Dai primi album di fumetti che i miei mi regalavano, fino ai primo romanzi, avevo vissuto a lungo in altri mondi, alieni ma amici. Tra i primi romanzi che ricordo e che ho amato visceralmente ci sono “Tre uomini in barca” di Jerome, “Il signore degli anelli” di Tolkien e “Dedalus” di Joyce. Poi vennero tanti altri e il fatale incontro con la Recherche. Una lenta maturazione mi portò a leggere con maggiore distacco, perdendo la magia di quelle prime letture. Magia che comporta, aveva ragione quel vecchio antipatico, dei pericoli. La differenza coi ragazzi che si lasciano catturare dai mondi descritti nei videogiochi, però, seppur lieve, è fondamentale. Lì un mondo costruito con precisione ossessiva è pronto a rinchiuderti nelle sue logiche, sportive o di dominio. In una storia raccontata la fantasia del lettore è invece libera di completare quel che lo scrittore accenna appena. Il mondo letterario è così il tuo stesso mondo, non ne sei prigioniero ma contribuisci a crearlo. Forse rischi per davvero di fuggire la realtà, come Don Chisciotte, ma puoi anche ritrovare il filo della narrazione che hai perduto. Perché ciò che chiamiamo realtà è una storia che ci andiamo raccontando, non troppo diversa da un romanzo.

Petites Madeleines – 41

Arrivederci, amico mio, arrivederci.
Mio caro, tu sei nel mio cuore.
Il distacco predestinato
Promette un incontro futuro.
Arrivederci, amico mio, senza saluto, senza parole,
Non essere triste e non aggottare le sopracciglia,
In questa vita morire non è una cosa nuova,
Ma anche vivere, certamente, non è una novità.
(Sergej A. Esenin, Arrivederci, amico mio, arrivederci, traduzione Eridano Bazzarelli)

Com’era bella, l’amicizia, quando il mondo finiva domani. Quando, scendendo un dirupo esistenziale, il cuore era colto dal panico e pareva scandire col suo battito una fine inesorabile. Allora arrivava la sola amica che parlava la tua lingua, oppure l’amico che non parlava affatto ma ti offriva un bicchiere di vino con un gesto più solenne di quello di un maestro del tè. Le giornate duravano una vita e la vita pochi essenziali secondi. Il tramonto ci avvolgeva in una luce azzurrina velata e noi ci curavamo con gli sguardi. Tutto questo è ormai passato, sostituito da un tempo orizzontale, equilibrato, dove si respira solo saggezza. Il rimpianto non è ammesso in queste giornate che si susseguono senza più tormenti. Ti chiedi se questo, che tu desideravi, non sia che un vecchio inganno di cui sei stato vittima consapevole, se in fondo vivere “bene” non sia vivere, e ti chiedi dove siano finiti quegli amici, come vivano ora, e poco importa che tu li conosca ancora, perché non sono più loro e tu non sei più tu. Ti è rimasto un ricordo di te, come se fossi partito salutando gli amici, e te stesso, per l’ultima volta, molti anni fa.

Pensierini della buonanotte – 183

Forse la giovinezza è solo questo
perenne amare i sensi e non pentirsi
(Sandro Penna, da “Poesie”)

L’età della ragione inizia sempre troppo tardi. Prima, un urlo che ferisce la mente prevale sempre. È di un’anima corrosa dal desiderio, lo si potrebbe dire un grido di tortura, ma basta poco per trasformarlo in gioia. Uno sguardo sperato, una carezza, pochi istanti. Un nulla, visto a posteriori, eppure non è così. Di grandi amori vissuti per non più di pochi giorni sono pieni i miei ricordi, ma solo in piccola parte mi riguardano personalmente. Ho in mente tante storie di altre e altri che si ripetevano come un suono di campane al vespro: ogni sera, alla stessa ora, davanti a un bicchiere di vino o a un tè, la confessione di un amore, l’ennesimo. Visto da qui, adesso, pare una coazione a ripetere. L’altro, il confessore occasionale, si chiedeva il perché, dimenticandosi spesso di situazioni simili che aveva vissuto, o dicendosi che era tutta un’altra cosa. E invece i sentimenti che pensavamo così unici erano un prodotto del tempo nostro e della nostra età, prevedibili ben più di un cambiamento meteorologico. Di alcune amici e amiche potevamo predire il prossimo palpito amoroso con la precisione di un fisico alle prese con il comportamento di particelle elementari. Che ci si poteva fare, se capitava pure a noi stessi? Sapevamo bene, ma a volte non volevamo ammetterlo, che conveniva lasciare perdere la ragione, perché destinata comunque alla sconfitta. Che dovevamo vivere con lo splendore di una farfalla il nostro breve tempo, che tutta la felicità di questo mondo non era in fondo che quello, la stessa di un animale che sceglie il suo destino nel corteggiamento. La ragione umana in fondo è poca cosa di fronte alla potenza dei sensi. Dovremmo ricordarcelo sempre, quando ci stupiamo per qualche personaggio importante rovinato da uno scandalo risibile. Poi il tempo ridà alla ragione il suo primato, ma non prima che i danni siano stati fatti.