Pensierini della buonanotte – 213

“E cominciarono geminazioni in massa di cosa è stato e di cosa non è stato…
Sempre più dettagliate, sempre più vicine agli avvenimenti reali, a volte più reali di loro. E nessuno ormai sarà più in grado di distinguere cosa è verità e cosa è sembianza… Una trapassa nell’altra e, quando si versa sangue vero, caldo, umano, la gente applaudirà come a teatro, mentre altrove un colorante rosso, estratto di cinabro velenoso, lo prendono per sangue e si imbestialiranno a dismisura…” (Georgi Gospodinov, Cronorifugio, traduzione Giuseppe Dell’Agata)

La propaganda che tenta di giustificare una futura guerra esalta le contrapposizioni: da una parte tutto il bene possibile, dall’altra tutto il male. Utilizzando modelli presi dalla storia si accusa la parte nemica di fascismo, nazismo, comunismo, senza entrare nei dettagli e spesso con motivazioni casuali. Tirata in ballo da più parti, la democrazia viene stirata come un elastico per farsene scudo anche quando non si potrebbe. Ne soffre in primo luogo la capacità di analisi storica del presente. Si creano contrapposizioni, bianchi da una parte e neri dall’altra, dimenticando il colore principale del reale: il grigio. Chi è senza colpe, diceva qualcuno, scagli la prima pietra, ma qui di pietre è pieno il cielo e nessuno si interroga sulle proprie colpe. Ammettere che non si è innocenti è il primo passo verso la pace, ma chi tenta ora di porgere la mano viene colpito per primo e accusato di intelligenza con il nemico.

Difficile non essere pessimisti. Ripartendo dal quasi nulla di oggi si dovrebbe ricominciare con la critica del pensiero odierno, più che con un pensiero critico, anche se la differenza può sfuggire. Bisogna fingere di essere dei marziani sbarcati sulla Terra che osservano basiti una realtà aliena. E, soprattutto, evitare di giudicare, almeno finché è possibile. Occorre tornare all’esercizio salutare dell’epoché. Non significa tacere, ma seminare costantemente il dubbio. Senza, per questo, esaltarsi inutilmente: ciò che si può fare è comunque poco, bisogna esserne coscienti, ma quel poco è doveroso farlo (perché se ci fingiamo marziani, in realtà non lo non siamo).

Pensierini della buonanotte – 212

Dicono alcuni che finirà nel fuoco
Il mondo; altri, nel ghiaccio.
Del desiderio ho gustato quel poco
Che mi fa scegliere il fuoco.
Ma se dovesse due volte finire,
So pure che cosa è odiare,
E per la distruzione posso dire
Che anche il ghiaccio è terribile
E può bastare.
(Robert Frost, Fuoco e ghiaccio, traduzione di Giovanni Giudici)

Some say the world will end in fire,
Some say in ice.
From what I’ve tasted of desire
I hold with those who favor fire.
But if it had to perish twice,
I think I know enough of hate
To know that for destruction ice
Is also great
And would suffice.
(Robert Frost, Fire and ice)

Penso che tutte le guerre del nostro tempo siano combattute contro le popolazioni civili. Non mi pare ci siano, da questo punto di vista, eserciti “buoni” o eserciti “cattivi”, ma solo guerre che hanno come scopo il terrore. Destabilizzare uno stato nemico vuole dire in primo luogo far perdere consenso al suo governo e per questo scopo non c’è niente di più efficace del terrore. Paradossalmente questo fatto assolutamente negativo è la conseguenza di sistemi più o meno apparentemente democratici, comunque basati sul consenso elettorale. Al di là di ciò, la stessa esistenza di sistemi di comunicazione diffusi fa sì che in ogni luogo del mondo sia presente un’opinione pubblica che può determinare un cambio di governo. Persino un governo autocratico può venire abbattuto dalle proteste popolari. Terrorizzare una popolazione significa renderla più debole, meno disponibile al sacrificio, creare un desiderio di resa che la allontani dall’intransigenza dei proprio governanti.

Che ciò funzioni sempre è cosa molto dubbia, ma le bombe continuano a cadere sulle case e sugli ospedali e gli eserciti diventano sempre più meccanismi industriali di terrore di fronte ai quali i pochi, spesso singoli, terroristi che compiono attentati in giro per il mondo paiono ben poca cosa. Una futura guerra mondiale potrebbe essere il più grande massacro della storia. Ad essa ci stiamo avvicinando come se avessimo già accettato la sua inevitabilità.

Pensierini della buonanotte – 210

Questi anni appartengono ormai alla storia, eppure la loro freschezza, il loro eccesso ci fanno ancora sognare. Il comunismo sessuale e locativo potrà anche essere caduto in disuso, ma una parte della vita dei trentenni di oggi è stata concepita allora, a volte anche della loro ideologia. La nostalgia non è mai una buona politica, ma a volte riflette un’intuizione fondata: non rivedremo tanto presto un’epoca così eccessiva. I nostri vecchi paesi non ne hanno più i mezzi, nemmeno la voglia. Hanno tutti troppa paura della miseria per concedersi il lusso di rovesciare tutto.” (Claude Arnaud, Che hai fatto dei tuoi fratelli, traduzione Daniela Bargiarelli)

Quando leggo, che sia poesia o prosa, un testo dei nostri anni che vorrebbe richiamarsi a un’idea di avanguardia sovvertendo un preteso status quo letterario, non riesco a prenderlo sul serio. È come provare a infilare un filo in un ago portando l’ago verso il filo, mi dico. Le avanguardie artistiche non possono esistere per conto proprio: c’è sempre una società che le genera quando ne ha bisogno. Se, invece, si vive in mezzo alla paura e alla voglia di sicurezza, se la libertà pare a molti un lusso di cui si potrebbe anche fare a meno, non c’è spazio per nessuna avanguardia artistica. Bisogna tornare a parlare la lingua dei bambini per essere capiti meglio.
È sempre stata l’illusione dei giovani rivoluzionari: cambiare tutto partendo dalle parole. Ma se le parole possono essere pesanti più del ferro, non vivono per conto proprio. Negli anni sessanta e settanta il desiderio di cambiamento e di libertà era qualcosa di così evidente da sembrare solido, lo respiravi insieme all’aria (e al fumo). Nessuno poteva sottrarsi. Avere paura, allora, era insensato: c’era una missione da compiere (ce n’erano tante, in realtà, e se alcune divennero col tempo mostruose, altre portarono a importanti conquiste di cui molti ora sembrano inconsapevoli). Di quel fermento generale le avanguardie artistiche si nutrivano, ma ora?

Forse basterebbe descrivere la realtà attuale, essere uno specchio, probabilmente sgradevole. Non piace a nessuno vedere il proprio volto invecchiato, ma la realtà ha un’autorevolezza che non è facile sminuire. Se si dovesse immaginare un ruolo per l’artista contemporaneo per me sarebbe proprio questo: descrivere ciò che accade, così come accade, senza lasciarsi sviare dalle narrazioni ufficiali.

Di cosa parliamo quando parliamo di fascismo

“I suoi primi contatti personali con funzionari ebrei, tutti sionisti di vecchia data, furono pienamente soddisfacenti. Eichmann spiegò che la ragione per cui la ‘questione ebraica’ lo affascinava tanto era il proprio ‘idealismo’. Anche quegli ebrei, a differenza degli assimilazionisti, da lui sempre disprezzati, e degli ortodossi, che lo annoiavano, erano ‘idealisti’. Essere ‘idealisti’, secondo Eichmann, non voleva dire soltanto credere in un”idea’ oppure non rendersi rei di peculato, benché questi fossero requisiti indispensabili; voleva dire soprattutto vivere per le proprie idee (e quindi non essere affaristi) ed essere pronti a sacrificare per quelle idee tutto e, principalmente, tutti. Quando in istruttoria dichiarò che avrebbe mandato a morte suo padre se così gli fosse stato ordinato, non intese soltanto mostrare fino a che punto era soggetto agli ordini e pronto a obbedire; volle anche mostrare fino a che punto era sempre stato ‘idealista’” (Hanna Arendt, La banalità del male, traduzione Piero Bernardini)

Senza sapere bene cosa sia, parliamo spesso di fascismo. Ora, in un mondo che non conosce più vere idee politiche, ci sarebbe il pericolo di un ritorno a questa ideologia. Forse è proprio quel che sta accadendo, ma prima di arrivare a troppo facili conclusioni qualche riflessione storica mi sembra necessaria.
Potrebbe essere sorprendente, per alcuni che non conoscono la storia, scoprire che il fascismo non è altro che una derivazione (o se vogliamo una degenerazione) del socialismo. Non è un caso che Mussolini sia stato un importante esponente del Partito Socialista. E non è un caso che ammirasse Lenin pur considerandosi nemico del comunismo.

Nel fascismo e nel nazionalsocialismo c’è però l’alterazione di un fondamento essenziale del socialismo: la trasformazione della lotta di classe in lotta “razziale” tra popoli (il nazionalsocialismo e poi il fascismo metteranno in cima alla lista dei popoli nemici gli ebrei). Non c’è più lo sfruttamento di una classe su un’altra, ma lo sfruttamento continua a essere il motivo principale delle rivendicazioni politiche, essendo però inteso come sfruttamento che alcuni popoli operano nei confronti di altri popoli. Questo fa tutta la differenza.
Nel marxismo una classe sfruttatrice è tale “oggettivamente”: sono i rapporti economici che fanno sì che vi sia sfruttamento, non le intenzioni dei singoli e men che meno la loro appartenenza etnica o nazionale. Il singolo capitalista non ricopre che un ruolo, ed è intercambiabile. Pensare di combattere il capitalismo punendo i “cattivi” è una sciocchezza che purtroppo si è tramutata più volte in atti reali. Viceversa, per il fascismo il ruolo oppressore di un popolo è intrinseco a quel popolo stesso e coinvolge non solo chi svolge determinati ruoli, ma anche i suoi familiari e i suoi figli (fino persino ai neonati, destinati a diventare per appartenenza “razziale” futuri oppressori). Questo ha portato al tentativo di genocidio di interi popoli, primo fra tutti, ma non unico, il popolo ebraico.

Ora si considerano nuovamente interi popoli come un pericolo, perché vogliono venire “da noi”, rubare “i nostri posti di lavoro”, approfittare “del nostro sistema sociale”. La separazione dell’umanità in popoli nettamente distinti e dagli interessi contrapposti è il germe del ritorno della stessa malattia, una malattia europea che si chiama fascismo e che può avere mille altre mutazioni senza perdere la propria pericolosità.

Lettera da un vecchio allievo

Caro professore,

mi scusi se le scrivo dopo così tanti anni. Ho pensato spesso a lei (sì, lo so, mi chiedeva sempre di darle del tu, ma non riuscivo a considerarmi alla sua altezza). Non so dove ora si trovi e nemmeno credo che vi sia per lei un qualsivoglia dove. Volevo solo dirle che dopo la sua morte, avvenuta tantissimi anni fa, mi sentii perduto. Lo ero già di mio e quel giorno scoprii che pure lei, come me, si era smarrito nella vita. Qualcuno poi mi disse che era depresso, ma io sapevo che questa non era una spiegazione, così come non spiegava nulla l’assurda vicenda giudiziaria che la coinvolgeva. Lei avrebbe potuto tranquillamente mettere in ridicolo i suoi accusatori, che tra l’altro l’accusavano solo di avere saputo e non avere denunciato. Erano poi, lei lo sa bene, tutte fandonie, ma forse allora anche lei ebbe il dubbio che ci fosse qualcosa di vero. Fatto sta che io e lei sappiamo il vero motivo per cui si è ucciso. Ce lo disse, a noi studenti del suo seminario, più volte ben prima di morire, parlandoci del suicidio di Majakovskij. Ci sono situazioni oggettive che rendono impossibile continuare a vivere, così più o meno lo spiegava (mi scusi per l’approssimazione). Majakovskij aveva creduto in una rivoluzione che non era riuscita a eliminare i difetti umani, che non aveva migliorato la vita e che non aveva nemmeno risolto i problemi dell’amore. La sua battaglia era perduta e lui aveva deciso di mettersi da parte. “La barca dell’amore si è spezzata contro il quotidiano.” Questa era la spiegazione.

Così forse è stato pure per lei, ma naturalmente evitiamo i pettegolezzi. Questi coinvolgerebbero un partito che non esiste più e che nell’occasione in molti suoi esponenti dimostrò di avere una mentalità piccolo borghese non meno di altri. Non è questo il punto. Quando si arriva in una situazione simile a quella che ha portato al suicidio Majakovskij bisogna decidere se andare avanti nonostante tutto o arrendersi. Lei ha deciso di arrendersi. Come scriveva Majakovskij “non è una soluzione (non la consiglio a nessuno)”. Resta il diritto di farlo, nonostante sia sconsigliabile. Allora gliene feci una colpa, perché aveva abbandonato me e tanti altri (io ero solo uno dei tanti e forse uno dei più deludenti allievi). Ora sospendo per sempre il giudizio. Quel che è avvenuto dopo ha confermato che nella sua scelta c’erano delle ragioni. Il mondo che c’è stato dopo la sua morte ci ha deluso. Vorrei però dirle che avremmo ancora avuto bisogno di lei. Nonostante tutto quello che è successo, o forse proprio per tutto quello che è successo dopo.

Petites Madeleines – 43

Può sembrare sorprendente e perfino incongruo considerare Berlusconi come colui che ha realizzato ciò che il Sessantotto ha sostenuto. Eppure per chi ha vissuto all’interno di quel movimento, non è difficile trovare in lui quella volontà di potenza, quel trionfalismo farneticante, quella estrema determinazione di destabilizzare tutta la società da cui il Sessantotto fu pervaso”. (Mario Perniola, Berlusconi o il ‘68 realizzato)

E allora abbandonammo i cinema d’essai e i cineforum per andare nei cinema a luci rosse, e questo dice tutto di ciò che accadde nel nostro paese a partire dalla metà degli anni ottanta. Il crollo del muro di Berlino non ha avuto altrettante conseguenze. La libertà sessuale che avevamo voluto si era trasformata in una languida autoipnosi da supermercato. E ridevamo, quanto ridevamo! Ci pareva di essere arrivati nel paese di Cuccagna. Solo alla sera, però, perché di giorno, invece, le cose non andavano come nei nostri desideri. Un po’ meglio, sì, grazie a un numero esagerato di assunzioni nelle grandi aziende statali, ma non tanto meglio di prima.
Quei cinema, per la maggior parte, erano stati prima dignitosi luoghi dove si proiettavano film del tutto normali. Perché fino a poco tempo prima la gente andava volentieri al cinema e aveva per i film un gusto che ora giudicheremmo quasi da cinefili, mentre allora era normale. Non c’erano solo i film di Fellini, Visconti, Rossellini, De Sica e Antonioni, ma anche quelli di Pasolini, Scola, Rosi, Maselli, Bertolucci, Loi, Monicelli, Leone e tanti altri. Tutti film che seguivano la particolare idea di cinema del regista e di cui la gente parlava. E poi c’erano i film stranieri. La gente faceva la fila per vedere l’ultima opera di Kubrick o di Bergman. C’erano anche film più brutti, certo, ma anche questi avevano quasi sempre una certa dignità artigianale. Tutti, insomma, andavano al cinema, e se chiedevi a qualsiasi persona qual’era l’ultimo film “bello” che aveva visto, potevi essere sicuro che ti avrebbe nominato il titolo di un film che se non era un capolavoro, poteva almeno essere considerato decente.

Poi, come detto, e non certo da un giorno all’altro, ma con un lento processo di slittamento, ci lasciammo attrarre da un baratro. Nelle sale dei cinema a luci rosse si sentivano respiri pesanti e risate non troppo soffocate, a seconda di come si viveva la nuova libertà. Perché c’era chi la praticava, non come nei film porno, ma in modi diversi che andavano dal più classico adulterio del giovedì sera, per chi cercava la trasgressione all’interno di una normalità borghese, all’accoppiamento seriale con persone diverse ogni volta che si usciva la sera.
Per molti però la libertà sessuale iniziava e finiva all’interno di una sala cinematografica che aveva perso l’antica e quasi sacrale aura culturale per acquisirne una sordida: la gente entrava senza guardarsi in faccia e usciva in fretta, svoltando al primo angolo di strada sperando di non essere riconosciuta. Il tempo delle videocassette non era ancora arrivato.

Ricordo di avere visto una signora ben vestita, sui cinquant’anni, svenuta davanti a un cinema del centro diventato a luci rosse. Appena uscita da una proiezione mattutina si era sentita male ed era circondata da molte persone che cercavano di aiutarla, in attesa dell’ambulanza. Fu quel giorno che compresi il baratro. E avrei potuto, in quel momento, prevedere il futuro, sulla base di semplici conseguenze logiche, ma un inguaribile ottimismo m’impediva di farlo.

Pensierini della buonanotte – 198

La rettitudine contava relativamente poco. Parlo, s’intende, dei valori, non già dei fatti. Va da sé che la proporzione delle persone rette e di quelle non rette era press’a poco la stessa che ovunque. L’espressione ‘uomo retto’ esiste anche in paese, ma l’ho sempre sentita con un’inflessione speciale, simile a quella che potrebbe avere altrove una frase come ‘ha una voce così gentile e delicata’. La rettitudine è una virtù, ma marginale.
Le virtù principali vigevano nella cerchia del mondo familiare, ed erano connesse colle necessità della vita, e col lavoro. La parola ‘dovere’ in senso morale è sconosciuta al dialetto; c’è invece l’espressione ‘bisogna’, nel senso in cui si dice che morire bisogna. Anche lavorare bisogna, per sé, per la ‘dòna’, per ‘el me òmo’, per i figli, per i vecchi che non possono più lavorare. Bisogna lavorare non otto ore, o sette ore, o dieci ore, ma praticamente sempre, magari con pause, interruzioni e rallentamenti, però in continuazione e senza orario, più o meno da quando si alza il sole fino a notte; bisogna lavorare da quando si è appena finito di essere bambini (e le bambine nelle case anche prima) fino a quando si è già vecchi da un pezzo; bisogna lavorare quando si è così poveri che lavorando sempre si arriva appena a sopravvivere, e anche quando si è meno poveri, e si potrebbe lavorare di meno. Anche qui, non descrivo principalmente fatti ma valori: naturalmente non tutti lavoravano così, c’erano gli scioperati, i fainéants, i voglia-di-far-bene. Ma il principio generale riconosciuto da tutti era che bisogna lavorare per la famiglia con tutte le proprie forze, sopportare qualunque fatica e sacrificio.” (Luigi Meneghello, Libera nos a Malo)

Uno dei temi delle proteste giovanili degli anni sessanta e settanta del novecento era l’istituzione familiare, da cui era necessario emanciparsi per sentirsi veramente liberi. In un periodo in cui la società si evolveva attraverso un trauma, quello della rottura tra generazioni, il conflitto affettivo sembrava inevitabile. Modello di qualsiasi istituzione difensiva, la famiglia protegge l’individuo e in cambio vuole essere interiorizzata nella coscienza individuale come ente immutabile, più reale della società esterna. Detta le regole della propria sopravvivenza ad ognuno, ed ognuno potrebbe violarle ma spesso non lo fa, per paura di una solitudine esposta ai pericoli del fuori. I ragazzi che allora volevano essere liberi, capivano che il primo legame che dovevano allentare era il più doloroso, quello familiare. Non più studi imposti dai padri, non più matrimoni approvati dai genitori, basta con le carriere nelle aziende di famiglia, con i pranzi e le cene basate sull’ipocrisia e sui rancori inconfessati. Finché, col tempo, tutto ciò si è smussato e l’istituzione è stata, almeno parzialmente, salvata, attraverso compromessi che parevano ragionevoli.

Nella famiglia uscita da quella contestazione, però, alcune cose non sono più come prima. Pare ad esempio scontato che ogni ragazzo, raggiunta la maggiore età, abbia diritto a scegliersi la vita che vuole. Qualche volta ciò provoca la sofferenza dei genitori, altre volte i ragazzi non hanno abbastanza autostima per rendersi veramente indipendenti, ma in ogni caso il principio è “ora sei grande, hai diritto di fare quello che vuoi”: quante volte lo abbiamo sentito ripetere, o lo abbiamo detto noi stessi ai nostri figli? Una simile indipendenza prima si raggiungeva solo dopo un matrimonio approvato dalla famiglia, a meno di non volere attuare una ribellione che provocava per reazione un permanente ripudio. Ora non è più necessario ribellarsi per iniziare una vita diversa da quella prevista dai genitori. O almeno non dovrebbe.

Perché poi la generalità dei casi ha poco a che fare con i casi singoli, e famiglie monolitiche non sono solo quelle degli immigrati di alcune culture diverse dalla nostra. Ce ne sono ancora oggi, con genitori in mille modi tirannici, casalinghi dittatori o affettuosissimi cerberi. E alcuni di loro, forse, avevano un tempo gridato la propria voglia di libertà contro i propri genitori. Perché l’istituzione è veramente naturale e tende a ricrearsi come primitiva forma di totalitarismo, modello di ogni altra. I dittatori non si presentano tutti come padri? O come grandi fratelli? “Dio, patria e famiglia” è una dichiarazione di assolutismo politico dove i tre concetti si identificano nella figura di un padre (o di una madre) di tutti.

Il disertore

Monsieur le Président,
Je vous fais une lettre
Que vous lirez, peut-être,
Si vous avez le temps.
Je viens de recevoir
Mes papiers militaires
Pour partir à la guerre
Avant mercredi soir.

Monsieur le Président,
Je ne veux pas la faire!
Je ne suis pas sur terre
Pour tuer des pauvres gens…
C’est pas pour vous fâcher,
Il faut que je vous dise:
Ma décision est prise,
Je m’en vais déserter.

Depuis que je suis né
J’ai vu mourir mon père,
J’ai vu partir mes frères
Et pleurer mes enfants;
Ma mère a tant souffert,
Elle est dedans sa tombe
Et se moque des bombes
Et se moque des vers.

Quand j’étais prisonnier
On m’a volé ma femme,
On m’a volé mon âme
Et tout mon cher passé…
Demain de bon matin
Je fermerai ma porte.
Au nez des années mortes
J’irai sur les chemins.

Je mendierai ma vie
Sur les routes de France,
De Bretagne en Provence
Et je dirai aux gens:
Refusez d’obéir!
Refusez de la faire!
N’allez pas à la guerre,
Refusez de partir.

S’il faut donner son sang,
Allez donner le vôtre!
Vous êtes bon apôtre,
Monsieur le Président…
Si vous me poursuivez,
Prévenez vos gendarmes
Que je n’aurai pas d’armes
Et qu’ils pourront tirer.
(Boris Vian, Le Déserteur)

Questa lettera qui,
Egregio Presidente,
se il tempo lo consente
forse la leggerà.
Ho appena ricevuto
la carta di chiamata
per guerra dichiarata
non so da chi e per chi.

Illustre Presidente
io non la voglio fare:
non son qui per ammazzare
altra gente come me.
Le devo dichiarare,
sia detto senza offesa,
la decisione presa:
certo, diserterò!

Da quando sono nato
partenze, lutti e pianti
ne ho già vissuti tanti
che non ne voglio più.
Mia madre e mio papà
già sono al cimitero:
se ne infischiano davvero
di bombe e vermi, là.

Quand’ero prigioniero
mia moglie hanno stuprato
ed anche il mio passato
e la mia dignità.
Domani, a buon mattino,
io chiuderò la porta
su un’esperienza morta
e in strada me ne andrò.

In Bretagna o in Provenza,
in giro per la Francia
vivrò con qualche mancia
e alla gente dirò:
Rifiuta d’obbedire,
non andare alla guerra,
rifiuta di farla,
rifiuta di partir.

Se è necessario il sangue,
Illustre Presidente,
il vostro è caldo, è ardente:
andate a darne un po’.
Se mi perseguirà
avverta i suoi gendarmi
che io non porto armi
e mi potran sparar.
(Boris Vian, Il disertore, traduzione Santo Catanuto)

Non credo che sarà mai possibile dire che le guerre sono un orrore del passato. Sono sempre accadute e continueranno ad accadere e vi saranno sempre uomini che le giustificheranno dicendo che vengono combattute per raggiungere la pace. Il rifiuto di combattere del disertore trova in questo amarissimo ragionamento la propria dignità. È il rifiuto di essere complici di un delitto comunque inevitabile. Il pacifismo non potrà mai vincere, perché lo stesso concetto di “vincere” gli è incompatibile (si può vincere solo combattendo), ma pone dubbi e problemi morali a chi altrimenti seguirebbe i generali anche in capo al mondo.

Polemica con il morto

portate via i vostri figli,
se apparirà in qualche posto uno stato.
Giovani, saltate e rintanatevi nelle spelonche
e nel profondo del mare,
se in qualche posto vedrete uno stato.
Ragazze e chiunque fra voi non sopporta l’odore dei morti,
cadete in deliquio alla parola ‘frontiere’:
esse odorano di cadaveri. ”
(Velimir Chlébnikov, “Solo noi, arrotolati i nostri tre anni di guerra”, traduzione Angelo Maria Ripellino)

A proposito dell’attuale guerra in Ucraina e delle giustificazioni nazionaliste russe all’aggressione militare, vorrei ricordare che nella costituzione sovietica del 1924 compariva al capitolo 2 comma 4 questa frase:

Ognuna delle repubbliche federate conserva il diritto di libera secessione dall’Unione”

che ha fatto a distanza di quasi un secolo infuriare il presidente russo Putin, nel suo discorso del 21 Febbraio. Ad alcuni sarà sembrato assurdo sentire il presidente di una grande potenza del terzo millennio polemizzare con un rivoluzionario del novecento, morto e sepolto. L’idea di libera associazione tra stati confederati presente nella costituzione del 1924 è, in effetti, eredità di Lenin (che morì qualche giorno prima della sua definitiva approvazione). Quest’idea venne espressa dettagliatamente da Lenin e dal giovane Stalin nel 1917 nella “Dichiarazione dei diritti dei popoli della Russia”, prima quindi della creazione della stessa Unione Sovietica. Stalin muterà poi col tempo idea (e modificherà la costituzione nel 1936), limitando l’autonomia delle repubbliche rispetto all’iniziale impostazione di Lenin.

Lenin, qualsiasi cosa si pensi di lui, non era diventato pazzo (come crede Putin, che invece apprezza Stalin che pazzo paranoico sarebbe poi diventato). Il suo intento era distruggere ogni residuo dello stato imperiale zarista, e per farlo non poteva che ispirarsi all’unico modello di stato federale disponibile al tempo: gli Stati Uniti. Che non erano, all’inizio del novecento, il grande avversario, tant’è che vi fu in diversi ambienti USA molta simpatia per il nuovo stato comunista (compresa la stessa amministrazione Roosevelt). Poi le cose cambiarono profondamente, come si sa.

Per impedire il ritorno dello spirito imperiale, magari sotto altre forme, occorreva in primo luogo contrastare lo “sciovinismo russo”. Da qui la politica della “Korenizacija” (“mettere radici”), che consisteva nel favorire i rappresentanti delle minoranze etniche nei governi e nelle burocrazie delle repubbliche sovietiche. Gli stessi membri del partito di origine russa che operavano presso altre repubbliche, erano obbligati a usare esclusivamente le lingue locali e ad appoggiare tale politica. Fu Lenin a volerla attuare, e fu poi Stalin a ridare invece centralità alla nazionalità e alla lingua russa, dando così vita a un impero non più zarista ma sovietico.

Putin è l’epigono degli imperatori di quello stato zarista che Lenin riteneva il principale responsabile della miseria dei popoli dell’impero. Di Pietro il Grande, in particolare, di cui forse sogna di essere la reincarnazione (ma Pietro il Grande era alto quasi due metri e aveva fama di sovrano illuminato). Lo scontro, che attraversa i secoli, tra chi sogna di restaurare l’impero zarista (Putin) e l’antico affossatore dello stesso impero (Lenin) può essere meglio compreso se si considera questo desiderio anacronistico di grandezza.

Pensierini della buonanotte – 187

Finora protetti, ma anche segnati, anzi proprio marchiati dal Novecento, finora vissuti nella sua pace piena di tensioni, esterne e interne, le interne talvolta causate dalle esterne e viceversa, ma protetti: ora che le nostre vite, salvaguardate e quasi affogate in decenni di doppiezza e falsa coscienza, volgono al termine, vediamo arrivare queste ondate distruttive, segno di gravi turbamenti planetari, a sconvolgere e modificare quello che ci sembrava di avere imparato del mondo…” (Francesco Pecoraro, Lo stradone)

Visti a distanza di decenni, quei volti ingessati da espressioni sempre identiche, congelati negli istanti delle fotografie ufficiali, sembrano incredibilmente bonari, saggi fino alla consapevolezza monacale di interminabili meditazioni estatiche. Le nomenclature sovietiche, i presidenti americani, i leader cinesi, tutti, senza distinzioni, parevano monaci zen in equilibrio su una corda sospesa nel vuoto, coscienti del limite oltre cui non potevano poggiare i piedi. Le guerre, mai scomparse dal mondo, erano confinate alle periferie, per il resto si giocava a scacchi o quasi (talvolta a ping pong). Bastava premere un pulsante (si diceva) per distruggere il mondo, ma quel pulsante nessuno l’avrebbe mai premuto. Questione di convenienza, ma anche di educazione!

Ora, scomparsa la corda su cui tutti stavano in bilico, la paura di ciò che potrebbe accadere ma non succede è diventata il terrore di ciò che accadrà con quasi assoluta certezza. Non si sa come, non si sa quando, ma pare che l’orrore delle conseguenze importi meno della volontà di candidarsi a ultimi sovrani.
Pragmatici pure di fronte all’apocalisse, molti consigliano gli equipaggiamenti: pillole di iodio, radio e torce con le pile, scatolette fino allo sfinimento. Ognuno si scelga il proprio bunker! Che la follia vinca sulla ragione, è cosa talmente scontata che non vale la pena sprecarci sopra delle parole.