Pensierini della buonanotte – 216

“Nella falsa società il riso ha colpito la felicità come una lebbra e la trascina con sé nella sua totalità insignificante. Ridere di qualcosa è sempre deridere, e la vita che, secondo la tesi di Bergson, spezzerebbe nel riso la sua crosta irrigidita, è – in realtà – l’irruzione della barbarie, l’affermazione di sé, che, nell’occasione sociale che le si offre, prende il coraggio a due mani e celebra la sua liberazione da ogni scrupolo. Il collettivo di quelli che ridono è la parodia della vera umanità. Sono monadi chiuse in se stesse, ciascuna delle quali si abbandona alla voluttà di essere pronta e decisa a tutto, a spese di tutte le altre e con la maggioranza dietro di sé.” (Theodor W. Adorno, Max Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, traduzione Renato Solmi)

Perché tra tutti i pronomi personali “noi” è il più pericoloso? Ho così tanta nostalgia del “noi” della giovinezza e di quello dell’appartenenza politica che l’aver capito (lo dico con la dovuta cautela, ma temo di non sbagliarmi) che è il veicolo di ogni etica totalitaria, palese o dissimulata o del tutto occulta che sia, mi provoca una sensazione di disgusto per la ragione umana. Non sarebbe meglio lasciarsi andare all’entusiasmo rassicurante di un “noi” possibilmente maggioritario (ma anche corposamente minoritario andrebbe bene)? È una tentazione fortissima, ma quanto è pericolosa?

Certo, di “noi” nelle società liberali ce ne sono tanti (e non dirò mai che non sia una fortuna). Ma ognuno sembra chiudersi sempre più nel bozzolo di un gruppo uniforme dove tutti pensano allo stesso modo e sono pronti ad espellere (accompagnandolo con pesanti offese) l’estraneo casualmente capitato tra di loro. Capita nei gruppi dei social network, ma non solo. Pare sia una progressiva tendenza ad evitare il fastidioso confronto tra idee diverse. Si adottano le idee del gruppo di persone che si frequenta, credendo che corrispondano esattamente alle proprie (senza rendersi conto di adeguare in realtà le proprie idee a quelle del gruppo) e si cessa la noiosa revisione delle proprie convinzioni (una tempo si chiamava “autocritica”, ma ora credo non abbia più nome). Quanto a chi “non la pensa come noi”, la presa in giro e la derisione sono il trattamento d’elezione in ogni gruppo. È pur sempre meglio della gogna e di un gulag, ma il passaggio da “una risata vi seppellirà” a “una risata mi impedirà di parlare con voi” è la fine di ogni possibilità di confronto dialettico.

Fuori le carte

Ero a passare il ponte
su un fiume che poteva essere il Magra
dove vado d’estate o anche il Tresa,
quello delle mie parti tra Germignaga e Luino.
Me lo impediva uno senza volto, una figura plumbea.
«Le carte» ingiunse. «Quali carte» risposi.
«Fuori le carte» ribadì lui ferreo
vedendomi interdetto. Feci per rabbonirlo:
«Ho speranze, un paese che mi aspetta,
certi ricordi, amici ancora vivi,
qualche morto sepolto con onore».
«Sono favole – disse – non si passa
senza un programma.» E soppesò ghignando
i pochi fogli che erano i miei beni.
Volli tentare ancora. «Pagherò
al mio ritorno se mi lasci
passare, se mi lasci lavorare.» Non ci fu
modo d’intendersi: «Hai tu fatto –
ringhiava – la tua scelta ideologica?».
Avvinghiati lottammo alla spalletta del ponte
in piena solitudine. La rissa
dura ancora, a mio disdoro.
Non lo so
chi finirà nel fiume.
(Vittorio Sereni, Un sogno, da “Gli strumenti umani”)

Tutto ciò che dico o scrivo può modificare le idee di altre persone. Lo facciamo tutti, non è necessario scrivere libri o articoli su riviste, basta una frase buttata lì o una riflessione appena accennata perché qualcuno possa trovare ciò che gli mancava per cambiare opinione. Siamo interdipendenti, non pensiamo mai da soli. Leggere, però, aumenta la possibilità di mutare, o precisare meglio, le proprie idee.

Di libri che secondo me affermano sciocchezze ce ne sono, è inevitabile ed è una fortuna. Se leggessi solo ciò con cui sono già d’accordo mi dovrei preoccupare seriamente. E sarebbe ancora peggio se non esistessero libri che affermano cose che reputo sciocchezze. Mi troverei all’interno di una società totalitaria di cui condividerei, consapevolmente o meno, la propaganda. Invece posso partecipare a un dibattito infinito che riguarda tutto e su cui l’unica cosa certa è che non ci sono certezze.
È una debolezza della nostra cultura? Sembra che qualcuno stia iniziando a pensarlo. Confrontandosi con altre società dal pensiero uniforme (ma lo sono veramente o nel silenzio della propria mente ognuno cova il proprio dissenso?) abbiamo l’impressione di essere più deboli. I templari della propaganda (ce ne sono ovunque) stanno già lavorando da tempo. Nella nostra società liberale sarà sempre possibile dire il contrario di qualcosa, ma il rischio è di venire setacciati, censurati da funzionari a volte più solerti di quanto sia loro richiesto. Si potrà sempre criticare il pensiero dominante, ma il rischio è che lo si debba fare con la voce flebile di un poeta, mentre tutti gli altri, approvati da qualche redazione, urlano. Non è ancora così, non del tutto almeno, ma il clima di guerra favorisce la prevalenza di un unico pensiero.

Dobbiamo nondimeno continuare a pensare e a parlare. Se uno scrittore avesse anche un solo lettore, questo potrebbe essere sufficiente a modificare il destino di un gruppo molto più grande di persone. Non possiamo saperlo, ma il cambiamento di idee in una singola persona potrebbe essere il granello di sabbia o la goccia d’acqua che mancava.

Pensierini della buonanotte – 214

“… lo ringraziavo per avermi fatto entrare nel laboratorio; mi dichiaravo pronto a perdonare i nemici, e magari anche ad amarli, ma solo quando mostrino segni certi di pentimento, e cioè quando cessino di essere nemici. Nel caso contrario, del nemico che resta tale, che persevera nella sua volontà di creare sofferenza, è certo che non lo si deve perdonare: si può cercare di recuperarlo, si può (si deve!) discutere con lui, ma è nostro dovere giudicarlo, non perdonarlo. Quanto al giudizio specifico sul suo comportamento, che Müller implicitamente domandava, citavo discretamente due casi a me noti di suoi colleghi tedeschi che nei nostri confronti avevano fatto qualcosa di ben più coraggioso di quanto lui rivendicava. Ammettevo che non tutti nascono eroi, e che un mondo in cui tutti fossero come lui, cioè onesti ed inermi, sarebbe tollerabile, ma questo è un mondo irreale. Nel mondo reale gli armati esistono, costruiscono Auschwitz, e gli onesti ed inermi spianano loro la strada; perciò di Auschwitz deve rispondere ogni tedesco, anzi, ogni uomo, e dopo Auschwitz non è più lecito essere inermi.” (Primo Levi, Il sistema periodico)

Non esiste un peccato originario, ma colpe che giorno dopo giorno si accumulano e di cui dovremmo chiedere scusa. Di molte non abbiamo che ben poca responsabilità, condividendole solo perché siamo parte di una nazione, di un mondo o di una classe sociale. Sono colpe collettive che precedono la nostra stessa nascita e aggiungiamo ad esse il nostro piccolo obolo di indifferenza o di dolente apatia. Per altre che accadono e si compiono mentre siamo adulti e ancora ben vivi non possiamo trovare giustificazione che non sia quella del “succede, ma io non sono d’accordo”. Scusa che diventa rivoltante quando viene addotta a posteriori (i tanti italiani che dopo la caduta del fascismo dissero di non essere mai stati veramente fascisti, di essere sempre stati contrari all’invasione di altre nazioni, di non avere condiviso le leggi razziali…).

Se ci si lascia prendere dal senso di colpa non si riesce più a vivere, ben lo sappiamo. Così la responsabilità per una guerra, per dei morti in mare, per scelte politiche che comportano sempre conseguenze e quindi colpe, viene nascosta e costantemente dimenticata. Ciò che può fare una singola persona è sempre pochissimo, ma se non lo fa può ancora ritenersi innocente? Nessuno lo è. Viviamo immersi in un universo politico nel pieno senso della parola, perché delle decisioni che qualcuno prende siamo vittime e insieme autori (in una società democratica sicuramente è così, ma lo è anche in società che democratiche non sono). Manifestare il proprio dissenso è importante, ma la piazza non è sufficiente (ed è meno decisiva di quanto non fosse un tempo). Meglio essere coerenti con il proprio senso etico, in ogni circostanza, senza preoccuparsi di correre dei rischi (accade negli stati totalitari ma a volte anche in quelli democratici), perché il rischio più grande è quello di lasciare che siano altri a decidere per te, rendendoti complice.

Pensierini della buonanotte – 213

“E cominciarono geminazioni in massa di cosa è stato e di cosa non è stato…
Sempre più dettagliate, sempre più vicine agli avvenimenti reali, a volte più reali di loro. E nessuno ormai sarà più in grado di distinguere cosa è verità e cosa è sembianza… Una trapassa nell’altra e, quando si versa sangue vero, caldo, umano, la gente applaudirà come a teatro, mentre altrove un colorante rosso, estratto di cinabro velenoso, lo prendono per sangue e si imbestialiranno a dismisura…” (Georgi Gospodinov, Cronorifugio, traduzione Giuseppe Dell’Agata)

La propaganda che tenta di giustificare una futura guerra esalta le contrapposizioni: da una parte tutto il bene possibile, dall’altra tutto il male. Utilizzando modelli presi dalla storia si accusa la parte nemica di fascismo, nazismo, comunismo, senza entrare nei dettagli e spesso con motivazioni casuali. Tirata in ballo da più parti, la democrazia viene stirata come un elastico per farsene scudo anche quando non si potrebbe. Ne soffre in primo luogo la capacità di analisi storica del presente. Si creano contrapposizioni, bianchi da una parte e neri dall’altra, dimenticando il colore principale del reale: il grigio. Chi è senza colpe, diceva qualcuno, scagli la prima pietra, ma qui di pietre è pieno il cielo e nessuno si interroga sulle proprie colpe. Ammettere che non si è innocenti è il primo passo verso la pace, ma chi tenta ora di porgere la mano viene colpito per primo e accusato di intelligenza con il nemico.

Difficile non essere pessimisti. Ripartendo dal quasi nulla di oggi si dovrebbe ricominciare con la critica del pensiero odierno, più che con un pensiero critico, anche se la differenza può sfuggire. Bisogna fingere di essere dei marziani sbarcati sulla Terra che osservano basiti una realtà aliena. E, soprattutto, evitare di giudicare, almeno finché è possibile. Occorre tornare all’esercizio salutare dell’epoché. Non significa tacere, ma seminare costantemente il dubbio. Senza, per questo, esaltarsi inutilmente: ciò che si può fare è comunque poco, bisogna esserne coscienti, ma quel poco è doveroso farlo (perché se ci fingiamo marziani, in realtà non lo non siamo).

Pensierini della buonanotte – 212

Dicono alcuni che finirà nel fuoco
Il mondo; altri, nel ghiaccio.
Del desiderio ho gustato quel poco
Che mi fa scegliere il fuoco.
Ma se dovesse due volte finire,
So pure che cosa è odiare,
E per la distruzione posso dire
Che anche il ghiaccio è terribile
E può bastare.
(Robert Frost, Fuoco e ghiaccio, traduzione di Giovanni Giudici)

Some say the world will end in fire,
Some say in ice.
From what I’ve tasted of desire
I hold with those who favor fire.
But if it had to perish twice,
I think I know enough of hate
To know that for destruction ice
Is also great
And would suffice.
(Robert Frost, Fire and ice)

Penso che tutte le guerre del nostro tempo siano combattute contro le popolazioni civili. Non mi pare ci siano, da questo punto di vista, eserciti “buoni” o eserciti “cattivi”, ma solo guerre che hanno come scopo il terrore. Destabilizzare uno stato nemico vuole dire in primo luogo far perdere consenso al suo governo e per questo scopo non c’è niente di più efficace del terrore. Paradossalmente questo fatto assolutamente negativo è la conseguenza di sistemi più o meno apparentemente democratici, comunque basati sul consenso elettorale. Al di là di ciò, la stessa esistenza di sistemi di comunicazione diffusi fa sì che in ogni luogo del mondo sia presente un’opinione pubblica che può determinare un cambio di governo. Persino un governo autocratico può venire abbattuto dalle proteste popolari. Terrorizzare una popolazione significa renderla più debole, meno disponibile al sacrificio, creare un desiderio di resa che la allontani dall’intransigenza dei proprio governanti.

Che ciò funzioni sempre è cosa molto dubbia, ma le bombe continuano a cadere sulle case e sugli ospedali e gli eserciti diventano sempre più meccanismi industriali di terrore di fronte ai quali i pochi, spesso singoli, terroristi che compiono attentati in giro per il mondo paiono ben poca cosa. Una futura guerra mondiale potrebbe essere il più grande massacro della storia. Ad essa ci stiamo avvicinando come se avessimo già accettato la sua inevitabilità.

Di cosa parliamo quando parliamo di fascismo

“I suoi primi contatti personali con funzionari ebrei, tutti sionisti di vecchia data, furono pienamente soddisfacenti. Eichmann spiegò che la ragione per cui la ‘questione ebraica’ lo affascinava tanto era il proprio ‘idealismo’. Anche quegli ebrei, a differenza degli assimilazionisti, da lui sempre disprezzati, e degli ortodossi, che lo annoiavano, erano ‘idealisti’. Essere ‘idealisti’, secondo Eichmann, non voleva dire soltanto credere in un”idea’ oppure non rendersi rei di peculato, benché questi fossero requisiti indispensabili; voleva dire soprattutto vivere per le proprie idee (e quindi non essere affaristi) ed essere pronti a sacrificare per quelle idee tutto e, principalmente, tutti. Quando in istruttoria dichiarò che avrebbe mandato a morte suo padre se così gli fosse stato ordinato, non intese soltanto mostrare fino a che punto era soggetto agli ordini e pronto a obbedire; volle anche mostrare fino a che punto era sempre stato ‘idealista’” (Hanna Arendt, La banalità del male, traduzione Piero Bernardini)

Senza sapere bene cosa sia, parliamo spesso di fascismo. Ora, in un mondo che non conosce più vere idee politiche, ci sarebbe il pericolo di un ritorno a questa ideologia. Forse è proprio quel che sta accadendo, ma prima di arrivare a troppo facili conclusioni qualche riflessione storica mi sembra necessaria.
Potrebbe essere sorprendente, per alcuni che non conoscono la storia, scoprire che il fascismo non è altro che una derivazione (o se vogliamo una degenerazione) del socialismo. Non è un caso che Mussolini sia stato un importante esponente del Partito Socialista. E non è un caso che ammirasse Lenin pur considerandosi nemico del comunismo.

Nel fascismo e nel nazionalsocialismo c’è però l’alterazione di un fondamento essenziale del socialismo: la trasformazione della lotta di classe in lotta “razziale” tra popoli (il nazionalsocialismo e poi il fascismo metteranno in cima alla lista dei popoli nemici gli ebrei). Non c’è più lo sfruttamento di una classe su un’altra, ma lo sfruttamento continua a essere il motivo principale delle rivendicazioni politiche, essendo però inteso come sfruttamento che alcuni popoli operano nei confronti di altri popoli. Questo fa tutta la differenza.
Nel marxismo una classe sfruttatrice è tale “oggettivamente”: sono i rapporti economici che fanno sì che vi sia sfruttamento, non le intenzioni dei singoli e men che meno la loro appartenenza etnica o nazionale. Il singolo capitalista non ricopre che un ruolo, ed è intercambiabile. Pensare di combattere il capitalismo punendo i “cattivi” è una sciocchezza che purtroppo si è tramutata più volte in atti reali. Viceversa, per il fascismo il ruolo oppressore di un popolo è intrinseco a quel popolo stesso e coinvolge non solo chi svolge determinati ruoli, ma anche i suoi familiari e i suoi figli (fino persino ai neonati, destinati a diventare per appartenenza “razziale” futuri oppressori). Questo ha portato al tentativo di genocidio di interi popoli, primo fra tutti, ma non unico, il popolo ebraico.

Ora si considerano nuovamente interi popoli come un pericolo, perché vogliono venire “da noi”, rubare “i nostri posti di lavoro”, approfittare “del nostro sistema sociale”. La separazione dell’umanità in popoli nettamente distinti e dagli interessi contrapposti è il germe del ritorno della stessa malattia, una malattia europea che si chiama fascismo e che può avere mille altre mutazioni senza perdere la propria pericolosità.

Pensierini della buonanotte – 207

Quello che sta accadendo a Lampedusa, e che accade ormai da venticinque anni, è come un incidente stradale che continua a ripetersi. Ci sono i superstiti, i morti e i feriti e io che abito nel condominio che dà sulla strada dell’incidente mi trovo i giornalisti che mi bussano alla porta e mi fanno delle domande. Ma sono le persone che hanno subito l’incidente che andrebbero intervistate, sono loro i soggetti da ascoltare, io abito in questa casa solo per caso, loro hanno compiuto vere e proprie avventure per giungere fino a qui. Noi possiamo offrire i primi soccorsi, dei biscotti, dell’acqua, del thè caldo e farci in quattro per capire come aiutarli a proseguire il viaggio. E invece loro, i veri soggetti di questa storia, quelli che andrebbero ascoltati per comprendere i tanti perché di questo esodo di massa, ecco, vengono rinchiusi nei Centri e zittiti nei loro diritti e nelle loro ragioni.” (Davide Enia, Appunti per un naufragio)

All’inizio era la paura. Perduta l’edenica fiducia negli altri cominciammo a distinguere tra buoni e cattivi, amici e nemici, bianchi e neri. Quest’ultima contrapposizione ce la misero in testa certe favole e si insinuò nel nostro inconscio come un virus. Una pelle un po’ più scura della nostra (ma l’abbronzatura non la consideriamo) sembra sempre sospetta di Jihādismo o cattive intenzioni. Del resto c’erano già i residui di un razzismo storico, che fa credere che “italiano” o “europeo” corrisponda a qualcosa di geneticamente determinato. Infine si aggiunse l’ideologia del Mulino Bianco, la famiglia vista come nucleo di ogni felicità possibile, nell’immaginario protetta da un contesto rurale, ma nella realtà chiusa nelle anguste mura di un appartamento cittadino.
Dopo i primi arrivi la sindrome da assedio si diffuse più facilmente, divenne il carburante che alimentava le campagne elettorali. La paura è per sua natura irragionevole, è una pulsione che alimenta muscoli e riflessi e che fa fuggire lontano, ma quando i corpi rimangono fermi nelle case non serve a nulla se non ad alimentare altra paura e a desiderare di essere protetti. Ogni discorso sulla inevitabilità di ogni nuova situazione e sull’impossibilità di tornare indietro nel tempo causa solo rabbia. Intanto gli arrivi continuano. “Bisogna fare qualcosa,” dicono quasi tutti, e molti apprezzano i tentativi più assurdi, pur capendo che sono tali, preferendoli all’inazione.

Si guarda al passato con nostalgia, dimenticandosi che era tutt’altro che privo di pericoli e conflitti, e ci si dimentica spesso di fare l’unica cosa che si dovrebbe: cercare di capire il presente.

Pensierini della buonanotte – 204

Quando la tentazione vi prende di premere quel bottone – e si cade nella tentazione anche ammettendo che qualche altro un giorno dovrà premerlo «se necessario» –, quando siete vittima di questa tentazione ricordate non i duecentomila di Hiroshima o i sei milioni di ebrei, ma un solo volto umano in dolore, qualche volto concreto di persona che avete amato e avete visto soffrire, qualche bambina lacera e piangente che avete incontrato per via, una volta, il tal mese, il tal giorno della vostra vita: ricordate – non «immaginate» – questo episodio minuto, irrilevante, che altre volte vi è sembrato «sentimentale», e di cui avete magari provato «vergogna» come di una «debolezza»; e se non vedete in quel volto tutti i volti, e il vostro stesso, o se avete bisogno ancora di Cristo per questo ricordo, o se addirittura non ricorderete nulla, o se direte che è segno di virilità non ricordare in questo momento, allora qualcuno oggi o domani, forse voi stessi, premerà il bottone.
La «guerra nucleare» è una breve catena di delitti veramente perfetti, che nessuno scoprirà mai per la semplice ragione che nessuno resterà per scoprirli, o nessuno potrà farsene giudice, scagliando la prima pietra.
«Io non sono un uomo, sono una dinamite».
La guerra nucleare è la fine del mondo non come rischio o come simbolo mitico-rituale di reintegrazione, ma come gesto tecnico della mano, lucidamente preparato dalla mobilitazione di tutte le risorse della scienza nel quadro di una politica che coincide con l’istinto di morte.” (Ernesto De Martino, La fine del mondo)

Bisognerebbe chiedersi non se accadrà, ma quando accadrà. Per il momento ogni pericolo di guerra nucleare è stato evitato grazie a un obiettivo esame di convenienze a livello politico. Queste raramente comprendono considerazioni relative all’umanità in generale. Sono piuttosto convenienze di una nazione o addirittura di una oligarchia, quando non persino di un singolo potente. È quindi possibile, e persino probabile, che un giorno vi sia una convenienza opposta, o se vogliamo non vi sia più alcuna convenienza ma solo l’inevitabilità di un gesto estremo. Chi lo farà e cosa accadrà dopo? E come sarà la risposta a quel gesto? Perché una risposta ci sarà, è evidente, e sarà forse il punto da cui non si potrà tornare indietro.

È strano che ora, dopo decenni di psicosi relativa all’olocausto nucleare, solo in pochi lancino un allarme convinto. L’atteggiamento prevalente è di apatia, un’indifferenza che coinvolge qualsiasi decisione da cui ci si sente esclusi. La prima bomba sembrerà esplodere quasi per caso, in un momento in cui nessuno se l’aspetterà. L’idea che il nostro mondo debba continuare ad andare avanti come adesso, senza crisi che ne possano causare la fine, è un pregiudizio consolatorio privo di realismo. Forse si sono lanciati troppi allarmi e ora nessuno ci fa più caso? Il “tanto non ci posso fare nulla” è l’atteggiamento di sopravvivenza tipico dei nostri anni, un fondamentalismo menefreghista che accompagna una sostanziale abdicazione dell’elettore occidentale al proprio potere. Una delega in bianco data al primo che passa. Quanto al pulsante si preferisce ignorare la sua esistenza. E così la delega comprende anche questo.

Pensierini della buonanotte – 202

Noi siamo un paese senza memoria. Il che equivale a dire senza storia. L’Italia rimuove il suo passato prossimo, lo perde nell’oblio dell’etere televisivo, ne tiene solo i ricordi, i frammenti che potrebbero farle comodo per le sue contorsioni, per le sue conversioni. Ma l’Italia è un paese circolare, gattopardesco, in cui tutto cambia per restare com’è. In cui tutto scorre per non passare davvero. Se l’Italia avesse cura della sua storia, della sua memoria, si accorgerebbe che i regimi non nascono dal nulla, sono il portato di veleni antichi, di metastasi invincibili, imparerebbe che questo Paese è speciale nel vivere alla grande, ma con le pezze al culo, che i suoi vizi sono ciclici, si ripetono incarnati da uomini diversi con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l’etica, con l’identica allergia alla coerenza, a una tensione morale.” (Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari)

Non c’è un termine giusto per indicarlo. Passività? Indifferenza? No, non è niente di tutto questo. C’è invece l’idea che esista solo un piccolo mondo fatto di relazioni familiari e amicali e che tutto il resto sia non solo irreale, ma soprattutto nocivo. La solidarietà è praticata all’interno del piccolo mondo, al di fuori di questo non esiste se non come pietà pelosa, sms caritatevole, lacrima versata sull’immagine televisiva e poi subito scordata. Se ognuno pensa solo a salvaguardare sé stesso (la famiglia ne è una proiezione) ogni politica diventa effimera e si cerca perciò il leader cui delegare ogni decisione. E poi si resta seduti ad applaudire o a fischiare, senza rendersi conto del pericolo. A destra come a sinistra (ma cosa sono?) ci si costituisce in tribù dove non si condividono ormai che poche parole chiave, di cui alcuni programmi televisivi si fanno megafono. Queste parole sono, tutte, prive di senso, ma a volte creano ferite di cui preferiamo restare inconsapevoli.

La tensione morale di cui parlava Pasolini è una chimera non solo perché appare irrealizzabile, ma perché è un mostro di cui abbiamo paura. La temiamo come una malattia mentale, che potrebbe costringerci, un giorno, a cambiare vita. Preferiamo allora che altri ne parlino, usandola come slogan, delegando infine anche l’etica. Vogliamo che qualcuno ci dica cosa dobbiamo fare, ma possibilmente senza disturbarci.

Pensierini della buonanotte – 200

…anche se avevano bisogno di lavorare per guadagnarsi da vivere, nessuno di loro aveva detto semplicemente lavoro per guadagnarmi da vivere; poi, per carità, magari, se è possibile, quando è possibile, anche per altro; ma il primo motivo dovrebbe esser quello; e se proprio uno non lo mette per primo, non dovrebbe almeno essere compreso nella lista? Invece no, niente, nemmeno un cenno. La propaganda fa miracoli anche senza un apposito ministero. E mi diede da pensare tutta quell’ansia di realizzazione di se stessi attraverso il lavoro. Se è per questo mi dà da pensare in generale. Realizzare se stessi. Realizzare me stesso! E poi, una volta che mi sono realizzato, che dovrei fare, appendermi a una parete?, mettermi in esposizione su uno scaffale, o peggio su un piedistallo, o peggio ancora affittarmi un tanto all’ora per accomodarmi in qualche stupido salotto in compagnia di altri realizzati ed esporre le mie stupide opinioni su qualsiasi cosa?, oppure, e sarebbe il migliore dei casi, scagliarmi addosso un martello e chiedermi perché non parlo?” (Vitaliano Trevisan, Works)

Un certo giorno, di tanti anni fa, abbiamo pensato fosse meglio chiuderla per sempre con l’ideologia e che fosse meglio semplicemente vivere come meglio si poteva. Siamo stati in tanti a farlo (forse non lo stesso giorno), ma abbiamo tutti, o quasi tutti, commesso un errore di sottovalutazione. L’ideologia non è qualcosa che si applica all’esistenza umana come uno spray abbronzante sulla pelle: l’ideologia è la nostra pelle. Farne a meno, quindi, è un problema, non si può, perché è parte del nostro corpo e della nostra vita, anche quando ce ne dimentichiamo. E siccome è parte di noi anche quando non ci piace, proprio come una parte qualsiasi del nostro corpo, ma dipende più da ciò che sta fuori di noi che da ciò che è dentro di noi, ammesso che abbia senso parlare di un dentro e di un fuori, ne siamo in un certo senso vittime e tanto più lo siamo quanto più crediamo di essercene liberati.

Ora, se abbiamo rinunciato a idee faticose che ci obbligavano a essere diversi da quello che siamo in realtà, è perché quelle altre idee che sono così poco faticose che nemmeno ci accorgiamo di averle hanno fatto dentro di noi una colonia, come fossero batteri. E così ci troviamo a parlare come non vorremmo, ma alla prima resistenza istintiva decidiamo invece di cedere e lasciarci prendere. Com’è più facile: non è solo, e non tanto, l’ultima propaganda politica urlata sui canali televisivi, a cui molti sono particolarmente sensibili, salvo mutare idea col mutare della propaganda; quanto ciò che non è mostrato come propaganda, ma come ultimo sviluppo del progresso umano a cui è necessario adeguarsi per non rimanere indietro. E così cambiamo opinione sul modo di vestire, sull’etica sessuale, sulla società e sull’individuo, seguendo una corrente che finiamo col credere naturale, ma che naturale non è. È ideologia, e dovremmo accettare la salutare fatica di sottoporla a critica, mentre invece, da molti anni, non si fa altro che accettare quel che ci capita di ascoltare, credendo magari di essere più furbi, o più rivoluzionari di una volta.