Pensierini della buonanotte – 129

“Rarità e isolamento, in fondo, dell’estasi mistica nel monoteismo, in quanto rapporto singolo con un Dio creatore unico, e perciò fatalmente separato dalle sue creazioni. Nel politeismo, in rapporto con un divino diffusivo, status naturae, ecco un pullulare di situazioni estatiche, molto diverse tra loro e però sempre vicine. Pan, dio dei pastori, ama le fonti, i luoghi freschi; sorgenti e luoghi ombrosi sono sede del dio. Il dio è percepibile. E così per le altre divinità. Le religioni di un solo dio (ebraico-musulmano) come religioni del deserto, del roveto ardente dove la molteplicità del reale si riduce fin quasi all’abolizione.” (Elvio Fachinelli, La mente estatica)

C’è una distanza siderale tra il pensiero e la vita quotidiana. E dal momento perfetto vissuto fuori dal tempo mi separa il cammino meccanico d’infiniti secondi. Sarebbe bello sfuggire alle piccinerie dell’esistenza, al continuo navigare a vista dell’essere, agli egoismi e agli inganni involontari. Non si può, non ci è concesso, perché la vita è questo interminabile, ma finito, movimento discontinuo, d’attimo in attimo, d’ipseità convergenti e divergenti come palline gettate a caso in una scatola.
Strana possibilità quella di fermare lo scorrere degli eventi, attuabile solo arrendendosi, accettando la fatica e lo sconforto di un lavoro che non produce ricchezza, se non idealmente. L’oggetto, la pagina, la frase musicale, sono costruzioni che rimandano a un altrove non raggiunto e forse non raggiungibile. Inganni anch’esse, in fondo, rappresentazioni favolistiche di qualcosa che non è eppure si avverte. Com’è possibile? Che cos’è il momento estatico cui alludono? E perché tutti lo ricordiamo, senza sapere il dove e il quando?
Che cos’è questo, misticismo? Pensiero che crede e trascende la realtà, oppure che avverte nella realtà stessa un’origine divina? Privo di referenti, isolato, s’immerge e s’innalza senza trovare nessuno. Avverte, immagina, concepisce, ma senza che lo si possa descrivere. E muore abbandonato dalla ragione, impegnata a calcolare rendimenti e opportunità.

L’immaginario politico

“Il pericolo più grande corso oggi dal movimento rivoluzionario italiano: il suo impoverirsi a una concezione e a una pratica della politica, del potere e della comunicazione che sono sullo stesso piano del suo avversario, perdendo per strada le ragioni stesse del suo essere diverso. Di qui l’impressione, che abbiamo avuto spesso in questi mesi, che i rivoluzionari stessero giocando la parte del topo nei confronti del gatto, che le loro sortite, in quanto obbligate, fossero previste e utilizzate ai fini di una rappresentazione edificante per le masse, sotto la regia del potere.” (L’erba voglio n.8/9, Febbraio 1973)

L’errore del rivoluzionario (oggi,  da noi, si direbbe “antagonista”,  per mancanza di possibilità reali di cambiamento profondo) è credere di potere fare spontaneamente la cosa politicamente giusta. Ogni azione politica è, almeno implicitamente, la rappresentazione di una posizione, e come ogni rappresentazione va concepita con attenzione, per evitare che sia male interpretata non solo da chi ne è spettatore, ma persino da chi ne è partecipe e ripenserà, tornando a casa, alla storia che ha appena vissuto. Le manifestazioni attuali della sinistra antagonista italiana sembrano soffrire di questa sindrome dello spontaneismo in modo ancora più acuto di quanto avvenisse alla sinistra rivoluzionaria degli anni settanta.

FachinelliNon si riflette sull’Immaginario politico. Concetto fondamentale , analizzato profondamente da uno dei principali autori dell’Erba voglio, Elvio Fachinelli, utile non solo per interpretare la politica di allora, ma soprattutto questa asfittica e più incolta che viviamo oggi e, di malavoglia, subiamo. E’ in un universo immaginario che avvengono le azioni dichiarate politiche (l’attentato di un terrorista, in questo senso, contende il palcoscenico a un’inattuabile proposta di riduzione delle tasse e al viaggio del Papa a Lesbo). Si lotta per conquistare l’attenzione degli spettatori e dei lettori, per suscitare rabbia, emozione, pietà, ottimismo. Chi entra nel discorso politico, in qualsiasi modo, appare sul palcoscenico e deve cercare di recitare la sua parte meglio che può. Buone o cattive che siano le intenzioni, ciò che vince è l’effetto. A volte il copione è sbagliato, ma riusciamo a capirlo solo alla fine della rappresentazione.

Non è una situazione anomala, facendo parte della nostra “normalità”. Qualsiasi azione umana, in fondo, esiste storicamente solo in virtù della sua rappresentazione. Se non viene rappresentata, è pre-istorica, dettata da un bisogno immediato simile a quello dell’animale. Niente ci separa dal comportamento dei politici, perché anche noi recitiamo, e rappresentiamo, spesso, lo spettacolo delle nostre vite,  avendo gli altri come spettatori e, soprattutto, noi stessi. L’autenticità è la più difficile delle virtù, e quando viene proclamata bisogna più che mai diffidare.

L’erba voglio

Muraro“Gli stessi che postulano la presenza di masse oppresse e ingannate sempre sul punto di rivoltarsi e lottare contro i padroni, farsi giustizia, cambiare il sistema economico e l’intera società, quegli stessi si rivelano per lo più indifferenti a conoscere la condizione in cui si trovano le masse, il modo in cui vivono l’oppressione e i possibili motivi che hanno di rivoltarsi; di fronte ai discorsi particolari di quelli che raccontano il proprio inganno e riconoscono le proprie ragioni di lottare, si reagisce spesso con un commento tipico: ‘cos’è questo? ma questo non è un discorso politico, mancano le indicazioni generali ecc.’.
“Si ha quasi l’impressione che le masse siano uno sfondo, una scena da cui si alzano fumetti bianchi che alcuni (avanguardia politica) riempiono di volta in volta con le giuste parole. Si discute molto, moltissimo, per sapere quali siano le giuste parole; io vorrei piuttosto vedere meglio come venga fatta la discriminazione tra ciò che è politico e ciò che non sarebbe politico.” (Luisa Muraro, L’agire politico, da “L’erba voglio” n.6)

L_erba_voglio0007_webDov’è finito Lin Piao? Quando lessi quest’articolo sull’Erba voglio, senza per altro riuscire a capirlo fino in fondo, avevo quindici o sedici anni. Mi sentivo, come tanti altri ragazzi degli anni settanta, rivoluzionario, anarchico, forse anche un po’ comunista: di lì a un anno sarei entrato nei Collettivi Politici Studenteschi di Lotta Continua. C’era qualcosa, però, di quanto avevo sentito e letto fino a quel momento che non mi piaceva. Mancava una suggestione che trovai in quell’articolo, e in tanti altri che avrei letto nella stessa rivista. Senza capirli del tutto, ripeto, ma solo quanto mi bastava in quel momento. C’era scritto il dubbio, l’incertezza, la consapevolezza che niente è scontato. A undici anni avevo abbandonato per sempre la religione cattolica, non volevo sottomettermi a un’altra dottrina. Queste riflessioni possono sembrare, ora, impossibili in ragazzi così giovani. Allora era normale, ma non erano minori l’ingenuità e il rischio di prendere delle cantonate che l’età comportava.
Mao, nell’articolo, era giudicato un satrapo orientale, forse inconsapevole. Nessuna rivista della sinistra rivoluzionaria avrebbe mai osato fare questo. L’Erba voglio invece osava, ponendosi contro tutte le liturgie politiche rivoluzionarie e anticipando, così, ciò che sarebbe avvenuto nel 1977.

Rivista nata nel 1971 per opera di alcuni intellettuali impegnati nella scuola e di uno psicoanalista freudiano (Elvio Fachinelli), l’Erba voglio fin dal primo numero avrebbe cercato di andare oltre il discorso sull’educazione per parlare di politica vera, quella di cui nei decenni successivi si sarebbero perse le tracce, e di linguaggio, immaginazione, desideri e, soprattutto,  antiautoritarismo (termine tanto utilizzato allora, quanto ora sconosciuto ai più). L’ultimo numero sarebbe uscito nell’autunno del settantasette, quando il movimento si sarebbe disintegrato in mille rivoli. Non a caso.
Ora è possibile rileggerla, a distanza di tanti anni, avendo la possibilità di scoprire che alcuni articoli sono invecchiati bene e sembrano quasi attuali. Merito dell’associazione A/I e della fondazione Primo Moroni:

http://www.inventati.org/apm/archivio/320/ERB/lerbavoglio.php